Caso Casalnuovo, padre di Massimo: «Non so ancora perché mio figlio sia morto». Ecco la lettera

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Caso Casalnuovo, padre di Massimo: «Non so ancora perché mio figlio sia morto». Ecco la lettera

Massimo Casalnuovo è morto nell’agosto del 2011 a Buonabitacolo, comune del Vallo di Diano, in circostante ancora da chiarire. E’ morto cadendo dal suo motorino, sul quale viaggiava senza casco e in questa vicenda un carabiniere, che aveva fermato Massimo, è indagato con l’accusa di omicidio colposo. Due testimoni oculari, infatti, sostengono che sarebbe stato proprio il carabiniere – che aveva fermato anche loro – a dare un calcio al motorino di Massimo e farlo cadere. 

«Da allora sono trascorsi quattordici mesi – scrive Osvaldo Casalbuono, padre di Massimo – tanti sono i mesi di sofferenza e di incapacità nel dare una motivazione a quanto accaduto, quattordici mesi di disagio e di sofferenza interiore poiché ancora non riesco a spiegarmi il comportamento adottato da una pattuglia di carabinieri nello svolgimento delle loro mansioni in un contesto sociale molto tranquillo, dove non era necessario lanciarsi con l’auto di servizio davanti a due ragazzi alla guida di un ciclomotore sbarrandogli all’improvviso la strada e, contemporaneamente, operare un altro fermo, sempre in maniera rocambolesca, tanto da causare tutto quello che conosciamo bene… la scomparsa di Massimo. Quattordici mesi per far emergere una verità che ancora è tenuta prigioniera, è giusto tutto questo? Mi chiedo cos’altro sarebbe successo se i due ragazzi precedentemente fermati non avessero avuto la prontezza di fermarsi in tempo?».

Lo sfogo «In quel momento, qualunque altro ragazzo avrebbe potuto essere al posto di Massimo, in quella circostanza ci sarebbe stata la medesima conclusione. Un’altra famiglia avrebbe pianto e sofferto quello che ora stiamo soffrendo io e la mia famiglia, un altro papà o un’altra mamma scriverebbero su queste pagine la loro sofferenza così come sto facendo io da quattordici lunghi mesi. Ci tengo a precisare che il mio non è accanimento ma è l’unico modo che mi rimane per cercare di abbattere quel muro di indifferenza che è stato circoscritto alla nostra vicenda: nonostante vi siano gli elementi necessari per poter decidere quali e di chi sono le colpe tutto permane nell’immobilismo, eppure sono stati ascoltati tutti i testimoni, si conoscono gli esiti delle perizie effettuate sia sul motorino che sulle scarpe del militare, nonostante questo ancora nulla, nessuna risposta, nessuna conclusione. Non riesco a capire il perché di tanta omertà nel non voler volgere al termine di quanto accaduto, io credo (e sono convinto) che questo atteggiamento abbia lo scopo di farmi “stancare” di rincorrere la verità o di un qualcos’altro che non voglio neppure spiegarmi… siate certi che il loro intento è fallito! Come già molte volte ho affermato, non darò tregua a chi ha il dovere di attenersi alle leggi e soprattutto di rispettare i diritti dei cittadini… non posso».

«Non so ancora perchè sia morto» «Ancora oggi non mi è permesso accedere alla cartella clinica di Massimo, perché ancora oggi non conosco la causa che ha determinato la scomparsa di mio figlio? Posso solo dire con certezza che, al momento della caduta, Massimo era vivo, io ero lì e, anche se non mi permettevano di avvicinarlo, riuscivo a vedere che aveva bisogno d’aiuto, aveva bisogno di respirare, perché Massimo non fu soccorso adeguatamente? perché questo ostinato silenzio? perché vogliono tenere incatenato Massimo e tutti noi non facendo la cosa più semplice? “Liberare la verità”». 

«Le indagini sulla morte di Massimo sono chiuse. Si attende che venga fissata l’udienza preliminare, e di capire quale siano le intenzioni del pubblico ministero. Ma si aspetta da troppo tempo. Certo: non è la prima volta che Procure e tribunali non rispettano al millimetro i termini di legge. Per ora tutto tace. Non è stata fissata nessuna udienza. E come se non bastasse, in questi lunghi 14 mesi il pm non ha mai convocato la famiglia. Non è un obbligo: ma forse aiuterebbe far sentire a due genitori prostrati dal dolore che lo Stato è presente, e intende fare il suo dovere». 

Il dolore «Come d’abitudine – continua Osvaldo nella sua lettera – tutte le mattine e le sere vado a trovarlo dove ora riposa per dargli il buongiorno e la buonanotte. La mia non è pazzia: mi bastano pochi minuti per essere un po’ più sereno, per sentirmi un po’ meglio ma non bastano comunque a colmare quel senso di vuoto che riaffiora quando me ne vado e che mi accompagnerà per tutta la vita. Tornato a casa, spesso trovo sua madre, seduta, con gli occhi gonfi e, guardandola in quegli stessi occhi, capisco il perché ma non riesco a dirle niente, solo silenzio dentro di me, allora, oltre al dolore, c’è la rabbia, rabbia verso chi ha permesso che la corruzione e l’ipocrisia prendesse il sopravvento sulla legalità».

La lotta «Continuerò a lottare nell’inseguimento di quella verità che tutti conosciamo, altro non so fare perché ho sempre creduto nella Giustizia, questo è il motivo che mi spinge a chiedere aiuto a chi possiede una voce più forte della mia affinché, le nostre voci unite in un unico coro, smuovano gli organi competenti nel dare una svolta decisiva al conseguimento di quello che è un diritto costituzionale: “La verità; ribadisco, lo devo alla mia famiglia ma, soprattutto, lo devo a Massimo».

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