Cannibalismo a Montesano sulla Marcellana, libertà e unità d’Italia: la cronaca di una tragedia per bocca della vittima

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Cannibalismo a Montesano sulla Marcellana, libertà e unità d’Italia: la cronaca di una tragedia per bocca della vittima

Il 28 gennaio 1799 un tragico evento si compì a Montessani (Montesano Sulla Marcellana). Nicola Cestari, il primo cittadino, il sindaco, dopo aver a lungo lottato per i diritti civili dei concittadini e non solo, fu ucciso dai sanfedisti e in parte arrostito (la guancia), infine mangiato. La sua casa fu saccheggiata e i piccoli figli furono portati in salvo all’ultimo momento, nonché sottratti alla atroce visione, da una donna di Buonabitacolo. Oggi la definiremmo una badante. L’eloquenza della parola che caratterizzò Nicola Cestari, è impressa su foglio bianco per sottolineare l’espressività delle immagini e l’idea creativa. Via via, però, Nicola si mostra per quel che ormai è: egli è morto, eppure il suo pensiero è nel presente, è qui e ora, ma si immagina che abbia potuto vedere tutto ciò che successe dopo, dalla fine di Carlo Pisacane alla cosiddetta epopea garibaldina, alla attualità di una Italia che si potrebbe definire ancora non concretamente fatta. Il linguaggio utilizzato da Nicola Cestari, il Galantuomo, come lo definisce nel titolo di un suo libro Felice De Martino, è all’inizio aulico. L’espediente adottato serve alla narrazione: come avrebbe potuto raccontare gli eventi un testimone ai fatti della fine del diciottesimo secolo, quali termini avrebbe utilizzato? Essendo l’intento, però, raccontare e diffondere la verità alle nuove generazioni, con la bocca della vittima, il linguaggio non può restare immutato. Se ciò accadesse si verificherebbe una ipotesi narrata anche nella cinematografia dei fratelli Taviani: non vi sarebbe possibilità di comprensione tra rivoluzionari e le future generazioni, per le quali i primi hanno combattuto. Nicola Cestari per molti versi fu un rivoluzionario e un antesignano di spinte emancipatorie e, pertanto, da morto, dà una lezione: sceglie di modificare il proprio linguaggio e adotta quello giovanilistico dei messaggini. Sul finire il protagonista-voce narrante sembra rendersi conto che certi diritti non sono ancora acquisiti. Si osserva, a questo punto, un fenomeno che potrebbe rientrare tra quelli cosiddetti di “metempsicosi” o di reincarnazione. Nicola Cestari “consegna” alle future generazioni un appello, quasi incarnando sé stesso e gli altri personaggi influenti nella Unificazione d’Italia nei giovani di oggi: Siate tutti, uniti, in un sol grido: libertà, uguaglianza, fraternità, ke la vita è bella se lo è per tutti. Li esorta, altresì, a non aver paura e, fiducioso, si firma: Nn temete; ciò ke otterrete è scritto. Noi lo volemmo con forza. Noi vi guardiamo. Voi siete i nostri okki. Nicola Cestari.

Per saperne di più sui fatti storici: – Leopoldo Cassese, Giacobini e realisti nel vallo di Diano nella Rivoluzione del 1799, in «Rassegna Storica Salernitana» a. X (1949), opera citata anche in: Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in terra di Bari e Basilicata: atti del Convegno di Altamura-Matera: 14-16 ottobre 1999, nota 10. Felice De Martino, La breve stagione del Galantuomo, Pegasus Libri.

Il racconto SUOLO ARROSSATO è nella antologia CARA ITALIA … Epistolario alla nazione, Pragmata Edizioni, Roma, che condensa contributi selezionati per l’omonimo concorso nato per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

 

SUOLO ARROSSATO

Montessani, 28 Gennaro 1799

Vi scrivo, avvolto nella mia candida tunica. Oramai sono solo energia, soverchiato e vinto da un tremore incontenibile. Ho freddo. La morte mi ha da tempo ghermito, ma vi vedo. Non posso fare altro che ripetere le parole pronunciate nella piazza battuta dal vento gelido. Chi di voi le ricorda? Chi ricorda gli attimi che precedettero l’atrocità, il prima che maschi e femmine, ancora non uomini e non donne, facessero banchetto delle mie carni? Ero ancora vivo; i loro denti affondarono nelle mie guance arrostite su braci di castagno, davanti agli occhi dei miei figli. E rivedo quella santa donna dagli occhi neri che li portò in salvo per vicoli luridi, case bruciate, grida di morte sempre più prossima. La vedo, inerme, eppure potente nella decisione di salvare il sangue del mio sangue. Rivedo il mio mantello. Fa parte di un lontano passato. E vedo il vostro mantello, che per me era nel lontano futuro; rivedo quel rosso intenso. E rivedo drappi verdi. Vi vedo, avvinti a una idea, attratti vorticosamente da una energia rivoluzionaria. E vi vedo nascere. E vi vedo crescere. E vi vedo morire, giovani, forti. Siate sereni: non sono morte le vostre idee che, seminate in terreno fertile, porteranno il frutto desiderato e mai assaggiato. Ancora lontano da venire. Non potrò essere altro che solo energia e non mi sento quel che sono stato. Quel che fui lo ricordo attimo per attimo; anche l’ebbrezza del sangue versato per difendervi è per sempre instillata nella mia memoria. I miei ultimi novanta giorni di Repubblicano, la breve vita e gli ultimi giorni di amato galantuomo stanno consumandosi. Non sono più il giurista che fui; non sono più il Presidente della Municipalità di Montissani. Non sono più altro che il mio nome su una tomba. Io sono stato Don Nicola Cestari. Vedo il Regno di Napoli, la sua rivoluzione democratica, la Repubblica Partenopea, che visse la sua giovane età, consumata in una esile frazione di tempo: dal dicembre scorso alla estate successiva. Così la costernazione ci prese; tutto pareva fosse destinato a finire. Era stato solo un fuoco di paglia, ma non si è spento del tutto; potrete ancora alimentarlo, renderlo fiamma capace di dare la libertà. Da qui posso contare uno a uno i galantuomini esanimi sui campi di battaglia. Erano i precursori laici della politica che, dotati solo di entusiasmo, inesperti e privi di mezzi, non seppero fare ciò che i Giacobini d’Oltralpe seppero compiere. Sapevo che non sarebbe stato facile reggere da Repubblicano la comunità alle prime prove di democrazia. Ma contavo sugli Statuti della Repubblica Partenopea, cui aveva messo mano, quale primo estensore, altro sangue del mio sangue l’abate Giuseppe Cestari. Morì martire sulle barricate erette nella Capitale, in quella Napoli a noi cara, al Ponte della Maddalena, per difendere la Libertà così sanguinosamente ottenuta. Gli attacchi della controrivoluzione e l’ira delle schiere sanfediste capeggiate dal terribile Cardinal Ruffo, sfondarono le nostre difese e travolsero ciò che avevamo creato. Da qui io rivedo tutto e vi dico: Prendete come esempio l’Abate Giuseppe Cestari.  Egli è stato ben più di me capace di indicare una necessità essenziale: occorre che tutti si manifestino, a un tempo, come sintesi solida del DIRE e dell’ESSERE. Leggete queste mio grido: saprete con chiarezza che non si può essere quieti nell’animo per ragione dei mostri che albergano negli uomini che comandano, che comanderanno. Fu così anche in quei tragici giorni. Io ora so tutto: i mostri ne generano altri, ancor più truci e più cannibali. Io ora so: che in quei mesi mancarono la farina, il grano, il pane, il vino, la libertà, la fratellanza, l’uguaglianza. Mancano ancora. Conquistatele, anche per me. Liberatami da questa condizione. Non so vedervi figli, tutti figli del mio sangue, senza anelito di libertà. Vi giungano queste mie parole, giungano a tutti. Anche a te, Carlo, voglio che esse sappiano raccontare il passato e vorrei essere capace di allertarti, dirti cosa c’è nel tuo futuro. Vorrei poter gridare: Attento! Attento! Poni attenzione per te e i tuoi trecento. In quelle plaghe desiderose di libertà, che la rivoluzione l’hanno voluta e sperimentata, c’è il mostro che vi attende. Sarete uccisi tutti. Tu stesso spegnerai il tuo sguardo azzurro. Ma ti leggo dentro la certezza, la decisione, la volontà. Tu vuoi morire per la Libertà e l’Uguaglianza, e io non potrò, cuore degno e bello, fermare il tuo passo, non potrò fermare l’impeto dei tuoi giovani trecento, non potrò fermare il ferro delle mani assassine e le bocche che berranno il vostro sangue. Le vedo spalancate, quali fauci affamate. È lì l’indegnità. Non è nella terra. È nelle menti di pochi che sanno dominare i molti. E la moltitudine vi ammazzerà. Adesso è tutto accaduto. Di te resta solo un misero cippo a Sanza; per te, caro Carlo Pisacane, poche lettere scalpellate in un anonimo cippo. È il prezzo pagato per il tuo sangue; e non modificano l’esiguità della controprestazione le poche statue erette nelle piazze italiane, di una Italia che ancora non è fatta. Altri verranno e sembrerà possibile compiere l’impresa. Saranno più di mille. Il rosso è ancora dominante. Vedo più di mille camicie. Vedo i loro piedi sul suolo arrossato; è quello che tu calpestasti amorevolmente con i trecento, andando incontro alla morte. Adesso gli  osanna della moltitudine, tra cui individuo anche persone che ammazzarono voi, si alzano altissimi nei cieli. Quel male fatto mi attanaglia. Anche nella condizione da cui non posso fuggire, avverto i patimenti di giovani uomini e donne. Nuove costituzioni si sono succedute. Chi ha resistito lealmente ha dovuto fuggire. Troppe fucilazioni, anche di giovani corpi stranieri, vedo e mi torturano l’anima. Sento anche la loro fame. Sento la eco di grida di morte sovrapporsi ad altre urla di terrore. Vedo le fiamme bruciare boschi, castelli, ruderi, animali, corpi umani vivi. Vedo il deserto. Vedo una moltitudine in fuga verso le Americhe. Sanno che mai più vedranno il loro suolo, i loro ulivi torti, i loro ruscelli. E mai più sentiranno i loro idiomi, le voci delle madri raccontare le fiabe mai da nessuno scritte. Essi saranno perduti per sempre, come lo sono io, come lo sei tu Carlo, come lo sarai tu Giuseppe. Ma noi non abbiamo patito lo strappo dalla propria terra. Chi l’ha lasciata l’ha voluto. Loro no. Loro potevano solo fuggire o subire la fucilazione. Lo dico anche a te, bella briganta nuda, da qui vedo il tuo soffrire e il tuo sacrificio. E vedo il tuo corpo vituperato. Non so quale, ma un fiore nascerà dalle tue carni, dal tuo sangue giovane. Gli entusiasmi di chi cercava di raggiungerti, Giuseppe, sono ormai spenti. Penne felici scrivono la storia. Sono le penne dei vincitori. Narrazioni intense e suggestive dimenticano i lutti e le passioni dei perdenti. Molti misteri vedo, sopravvissuti senza spiegazioni. Per quale arcana ragione e con quali violenti mezzi svanì Ippolito Nievo? Le tante ricchezze partenopee che fine fecero?A queste domande io non posso dare risposta: voi non le ascoltereste. Attraversate anche voi, giovani uomini, le strade e le città; aprite gli occhi; volgete lo sguardo fendete lo spazio e il tempo con un solo scopo: raggiungere la VERITÀ e narrarla. Sarà solo quella a darvi una Italia davvero fatta da genti libere, uguali, fraterne. Scrivete con il vostro nuovo idioma, insegnatemi a farlo, ma scrivete la VERITÀ. Voglio raccontare tutto. E vorrei che voi foste la mia penna.Li vedo i Trecento giungere dal mare. La maggior parte provengono da prigioni violentemente aperte. Ma sono giovani. Sotto l’albero monumentale vicino la Certosa di san Lorenzo, a Padula, ne vedo cadere otto, dopo aver lasciato il suolo santo. La folla lancia grida incomprensibili. La scena è affatto diversa da quel che ho visto accadere poche ore prima, da quel ke mi era sembrato di vedere. Pareva ke li aspettassero e pure a me pareva che sarebbero stati accolti da preghiere, canti, osanna. Invece no. Nn hanno incontrato la libertà in quelle terre, ma il ferro ke li trafigge. Quelli ke stanno per giungere, da quello scoglio nn potranno rivolgere lo sguardo al passato, anke se sapranno di loro. E di me. Essi sono in più; i solchi segnati e seminati hanno forse dato frutti. Celati dalla bianca nebbia, si cercano a voce; il comune obiettivo è far nascere la nuova Terra. Nn  sanno, nn avrebbero potuto saperlo, dei mille stupri che l’attendono. L’ITALIA nn sarebbe stata vergine, mai più. Occorrerà che quel sangue versato ingiustamente venga metabolizzato. Non è ancora accaduto. Io non avrei potuto vederli; nn c’ero già più. E non so per quale strana maledizione, o è una benedizione?, sono a qui a gridare la VERITÀ. Cosa avrei potuto pensare negli ultimi momenti di vita, mentre mi mangiavano? Avrei dovuto forse chiedermi se sarei rinato? Se qualcosa di me sarebbe resuscitata? Se avrei mai dimenticato l’atroce notte? Di tutti gli altri erano giunte le grida, avevo intuito gli ultimi respiri, sperando nn avessero sofferto, nn quanto me. Il rosso solco ke mi accoglieva era irrorato dai rivoli di sangue che mi abbandonava, gorgogliando tra gli ultimi spasmi giovanili. E con esso perdevo la vita. Tu, ke dall’alto della tua giovinezza mi leggi, lascia ke il bello di questa Terra esca dai Musei, dai Teatri, dalle pagine scritte. Fai in modo ke dilaghi nel mondo, incontri altre culle di civiltà. Scrivi con il tuo idioma, senza paure ma con okki aperti, questo msg x me: Non siate 300! moltiplicatevi. Siate tutti uniti, in un sol grido: libertà, uguaglianza, fraternità, ke la vita è bella se lo è per tutti. Nn temete; ciò ke otterrete è scritto. Noi lo volemmo con forza. Noi vi guardiamo. Voi siete i nostri okki. Nicola Cestari

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