Come morivano i briganti: la morte di Giovanni Coppa e le parole di Carmine Donatelli Crocco

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Come morivano i briganti: la morte di Giovanni Coppa e le parole di Carmine Donatelli Crocco

Carmine Crocco, detto Donatelli o anche Donatello, ostinatamente fatto entrare nell’immaginario collettivo quale figura brigantesca di truce intensità, fu in realtà un RIVOLUZIONARIO e ambientalista italiano. Dirlo subito serve a manifestare l’intenzione di ridefinire la dimensione in cui normalmente ci si imbatte, quella di brigante, appunto, che è così carica di significati negativi immeritati, così fuorviante, che adottarla anche qui danneggerebbe la storia, quella della Terra, dell’intera area geografica che vide quale protagonista il fenomeno. Quella terra c’è tuttora, esiste ancora, sia fisicamente che nella mente di chi nacque successivamente (molti discendenti, hanno potuto nascere giacché i loro avi fuggirono; a tanto furono costretti, non di emigrazione spontanea si trattò). Quel che accadde dopo l’Unificazione italiana è storia negletta, ed è risaputo come non si legga solo perché, come sempre, a scriverla furono i vincitori: moltissimi lucani, tra questi i cilentani, calabresi, campani, laziali, abruzzesi, pugliesi, costretti a fuggire per evitare il plotone di esecuzione, regalarono alle Terre che li accolsero cervelli acuti, energie e desideri giovanili. Carmine Donatelli Crocco fu tra i pochi che sapesse scrivere, e lo fece con straordinarie capacità narrative. Certo, chi pensasse di trovare nella sua prosa la concisione, il rispetto di regole grammaticale, l’assenza di strafalcioni, come la e accentata erroneamente, la punteggiatura in sintonia con il respiro, sarebbe deluso. Non è lì, in queste carenze, la fonte di una inutile delusione; dovrebbe essere altrove: nella perdita definitiva di una ricchezza umana straordinaria. Quel popolo che fuggì era la parte migliore del Paese. Non ritornerà mai più, così come la natura impone. E la natura, stavolta ci si riferisce all’ambiente e all’uomo, nelle parole di Carmine Crocco c’è sempre; in ogni sua evoluzione narrativa emerge la linfa vitale, ciò che scorreva nelle vene, in quel sangue riversato a ettolitri, in quella carne mangiata dalle mosche, umiliata, vilipesa: quante volte i briganti vennero trucidati e messi in posa per fare emergere impossibili volti cattivi, arcigni, pronti a uccidere con quegli inutili fucili stretti al petto, senza che il cuore battesse più? Infinite volte: i libri ne sono pieni di quelle immagini truculente, da brividi, oscene per tutto ciò che avrebbero dovuto celare, far dimenticare. Nelle pagine del libro MEMORIE in cui si racconta del brigante Coppa e di Ninco Nanco, Pianetalibro-2001, si narra di un rito funebre e si evidenzia il ruolo di Madre Terra che accoglie il “brigante” Giovanni Coppa. Si arriva alla sua tumulazione attraverso il racconto degli ultimi scampoli di vita e la sua figura umana emerge anche nelle parole intrise di pietà che Crocco seppe tirare fuori dalla sua presunta rudezza.

Dalla INTRODUZIONE di Costantino Conte si rileva come il libro vibri della eco di riti ancestrali che richiamano alla mente i rituali di seppellimento adottati dai guerrieri dell’antichità. Non furono anche quelli degli indiani di America? E non vi è forse stato un medesimo destino: la reclusione in riserve e l’eccidio?  Leggiamo: “…Coppa Giovanni avuto i due colpi cadde, ma poi alzatosi ratto e con una fucilata fa saltare il cranio allo avversario, che stava infilante le spoletto al suo fucile fasciò, i 28 compagni piansero l’uno è l’altro dopo aver soccorso il Coppa colla speranza di poterlo salvare, e niente disse lui e niente datemi un poco di acqua, ed è niente bevette quindi pregò di accompagnarlo da me, cui fecero con tanta esattezza. Il giorno dopo, cioè sul fare del giorno. La compagnia, gli feci sentire raccomandare il fatto come era successo, è udita la fine dissi colla testa si, domandate se volete vendetta da qualche suo Compagno, raddoppiò il no, no, colla testa, finalmente alla stessora dopo 24 ora che aveva ricevuto i due colpi. Spirò quando vido che il polso non dava più battito, subito gli strappai tutt’i panni lo chiuso bene gli occhi lavai bene bene il cadavero, taffettai bene le ferite, asciucato bene gli posi una cammiccia di lino motente e calzette una scolla di seta incanna, gli pettinai bene i capelli, e lo poso sopra una coverta unaltra sopra lo Lasciai dormire…La notte scelso il luogo, desegnai la fossa e sei dei suoi più fidi cavarono alla profondità di 8 palmi in fosso in cui dovevo tumulare il compariello di mio padre il figlio della mala femmina, alla quale col mio debbole e rozzo scritto chiamo a vedere suo figlio… Appena fatto giorno prendemmo nuovamente a contemplare il cadavero egli dormiva perfettamente, lo prendemmo bello bello, e lo ponemmo all’impiedi si reggeva perfettamente. Cammina Giovannino, Cammina meco all’ultima tua baronia, la tua fortuna è bella ed assicurata, non temere più, tutto hai pagato, vi resta solo il debito colla madre antica, viene da essa. La quale pietosamente v’aspetta. E prendendolo senza farlo smovere lo portammo alla preparata fossa. Quivi giunte lo ravvolgemmo in due coverte e il calammo giù poi fatti a pezzi tutte le sue arme, compresi gli speroni, ed il morso della briglia del suo cavallo, lo coprimmo di terra facendo scomparire ogni menoma traccia…”

E Crocco dirà poi: “In tutto questo scritto parlerò per voi misiri figli della miseria. Sappiate che per noi nessuno scrittore sprega inchiostro e carta, i nostri malanni, la nostra miseria, gli abusi, l’ingiustizia, che ci fanno, nessuno la scrive, mentre poi sono chiamati sommo scrittori, quelli che ci dispreggiano chiamandoci plebaglia, Miserabile, vermi, ed altri dispreggi che ci fanni comparire tanti schifosi animale, portano poi all’infenito le drute, le ruffiane, i traditori, ed altri che non torno dirgli, non pensate a questi lasciateli chiacchierare, essi hanno le loro spine, la poca felicità sta nella onesta ed è questo quello che io mi dedica farvi sapere, onde non cadere nella trappola dove sono io ed altri per colpa di scellerati ed infami uomini…” Finirà, poi, quasi con un appello alla ubbidienza per evitare mali peggiori. È evidente come Crocco sia in carcere e come non sia libero di dire tutto ciò che pensa: l’appello sembra quasi una mesta resa, a perseverare nell’atteggiamento tipico che viene attribuito al meridionale, ovvero la voglia di quieto vivere contadino.

Le memorie di Crocco, contenute in un manoscritto, furono poi raccolte da Francesco Cascella con il titolo: Le rovine del Brigantaggio dell’anno 1860, nelle province meridionale del Regno d’Italia, Scritto dal Capo Banda, CARMINE DONATELLO CROCCO, recluso nel Bagno penale s. Stefano.

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