Cementificio di Sapri, un lettore: «Sono nato all’ombra del ‘mostro’, ma ora siamo liberi. Si torna a sperare»

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Cementificio di Sapri, un lettore: «Sono nato all’ombra del ‘mostro’, ma ora siamo liberi. Si torna a sperare»

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di un lettore, GiovanniPaolo Ferrari, in seguito all’abbattimento del cementificio di Sapri. L’imponente opera concepita nell’immediato dopoguerra rimasta incompleta, è stata definitivamente demolita dopo sessant’anni dall’inizio dei lavori. «Oggi possiamo dire con orgoglio. Noi ce l’abbiamo fatta – ha commentato Giuseppe Del Medico, sindaco di Sapri – Una vittoria della Città di Sapri e dei sapresi che aspettavamo da tanto tempo»

Caro Direttore,

Le voglio raccontare una storia, una storia italiana, ma di un’Italia lontana, messa da parte, dimenticata. Una storia di periferia e, come tale, trascurata dalla stampa e dai telegiornali. Quando sono nato, il mio paese non aveva ancora un ospedale e, per nascere, bisognava andare in un’altra regione, oltre il confine, in un paesino molto più piccolo del mio, ma dove c’era l’ospedale. Durante la notte mio padre fu svegliato da un dolore acuto al braccio: era mia madre che aveva le contrazioni sempre più forti e più frequenti e gli stringeva così forte il braccio da conficcargli le unghie nella carne viva. Era estate, faceva molto caldo e si dormiva con le finestre aperte. In men che non si dica erano già giù: mio fratello e mia sorella sul balcone avevano solo fatto in tempo a vedere la 127 bianca sgattaiolare dal vicolo del palazzo e, senza fermarsi allo stop, sgommare sulla statale arrischiandosi in un sorpasso e scomparire dopo la prima curva lasciando il loro sguardo fisso sulle luci della baia. Trenta minuti di curve e imprevisti, con la scogliera a sinistra e lo strapiombo verso il mare a destra. Mio padre giura di non aver guardato l’orologio quando arrivarono all’ospedale per la paura che le lancette fossero andate indietro anziché avanti, tanto aveva corso. Quando dimisero mia madre, venne a prenderci con la sua 127 bianca. Mia madre sedeva dietro e mi teneva tra le braccia e indicando alla sua sinistra mi esortava: “Guarda, guarda che bello il mare, guarda che panorama: tu crescerai qui!” Non ricordo nulla di tutto questo: sono i racconti dei miei genitori ascoltati migliaia di volte che fanno eco nella mia memoria, ma sono sicuro di una cosa: superata l’ultima curva, l’ultimo angolo di centoottanta gradi e apertasi di fronte a noi la baia dove riposa la mia città; sono sicuro di aver aperto gli occhi per la prima volta in quell’istante e di averli rivolti al cielo, verso i finestrini della 127 bianca. Sono sicuro che un’immagine potente, maestosa, tirannica si è impressa di fronte ai miei occhi: probabilmente la prima cosa che ho visto in vita mia!

All’ombra della collina si ergeva un “mostro”: il primo mostro della mia infanzia, il primo mostro che turberà i miei sogni di bambino! Un mostro di cemento e di ferro, un mostro di eternit grigio si stagliava di fronte alla 127 bianca, di fronte tutta la baia. Un gigantesco cementificio o meglio la struttura in cemento armato di un gigantesco cementificio, finanziato con i soldi della Cassa del Mezzogiorno più di sessant’anni fa. Mai ultimato, per fortuna, e mai entrato in produzione. Un giorno sono finiti i soldi del finanziamento pubblico che dovevano bastare per il completamento dell’opera e allora i lavori furono bloccati e la struttura in cemento e la sua volumetria enorme su cui poggiavano le possenti fondamenta furono rilevate da una società privata di Napoli, poi da una di Roma e così via nei decenni successivi… Nel frattempo sono passati più di sessant’anni e ogni amministrazione avvicendatasi al governo della mia città, in campagna elettorale, prometteva che il mostro sarebbe stato buttato giù e che al suo posto sarebbero sorti complessi alberghieri stupefacenti, con multiproprietà e, addirittura, una darsena e un campo da golf con ventiquattro buche. Di tutte le promesse delle amministrazioni del passato e gli accordi presunti con le aziende succedutesi alla proprietà del mostro, mai hanno fatto seguito i fatti.

Sono nato all’ombra di un mostro, di un ecomostro e come me intere generazioni non avevano mai visto la nostra baia senza la presenza del cementificio. Tutti eravamo, ormai, abituati, assuefatti… alcuni hanno iniziato, negli ultimi anni, a nutrire, addirittura, sentimenti di affezione per il mostro: “È qui da sempre, se dovessero buttarlo giù per davvero – ma non capiterà mai – mi dispiacerebbe un po’!” Un’affezione che partiva da un assunto chiaro: “Era qui prima di me, è stato sempre qui, fa parte del paesaggio, fa parte anche di me che l’ho visto ogni santo giorno della mia vita svegliandomi la mattina e affacciandomi alla finestra. Non lo abbatteranno mai. Ormai è parte di me, di noi!” Quando, durante le giornate uggiose d’autunno, il cielo era grigio e il mare increspato e per strada c’eravamo solo noi, con il pallone in mano, che sfidando le intemperie andavamo a giocare all’ombra del mostro; quando eravamo lì sotto e, alzavamo gli occhi al cielo e vedevamo le volte e i pilastri del mostro che ci nascondevano la vista delle nuvole; in quegli istanti sentivamo che era lui il vero padrone della baia, della nostra città, delle nostre vite. Nessuno era stato capace di opporsi, nessuno aveva evitato la sua costruzione e nessuno era riuscito a toglierlo di torno: il cementificio rappresentava il fallimento della mia comunità! Non solo dei politici, dei sindaci che numerosi si erano dati il cambio su quella poltrona quando ero bambino, tanto che i nomi e i lineamenti si confondevano nella mia memoria, ma era il fallimento di tutti noi, come cittadini: eravamo ostaggi del mostro! Incapaci di reagire, di pensare e agire come cittadini; di far valere i nostri diritti, di affermare i nostri doveri nei confronti della nostra terra e dei nostri figli a non essere costretti a nascere all’ombra del simbolo del malgoverno, della corruzione, dell’abuso, della vessazione e riduzione in servitù dei miei compaesani e di me stesso.

Poi è successo: è successo ieri! Tornato a casa, mi siedo e il telefono vibra: era un video di mio fratello. Aspetto che si carichi e, nel frattempo, penso a che ore sono in Italia, nella mia città. In Cina, qui, solo le nove e mezzo di sera. Penso a qualche video delle mie nipotine che corrono o giocano, ma ecco che mi compare il mostro davanti agli occhi, ancora in piedi, anche con i segni del tempo evidenti, anche se ferito nel suo orgoglio di padrone della baia e ancora lì! Poi sento le voci degli amici, che annunciano il crollo: una gru, tanto piccola a dispetto del mostro, sembra grattare, solleticare un pilastro e tutta la struttura in cemento viene giù come un castello di carte. Il video si chiude dopo alcuni secondi, dove si sentono ancora urla di gioia e si vede un gran polverone. L’immagine si blocca e resto fermo a fissare lo schermo. Sono stravolto da un sentimento di angoscia: “È proprio vero? È venuto giù! E ora? Ora che il mio popolo, la mia gente è stata liberata dal mostro saprà riscattarsi una volta per tutte? Saprà ancora cogliere quest’opportunità di ripartire, di ricominciare?” Poi chiudo gli occhi e piango, piango lacrime di gioia! Il mostro non c’è più: la mia baia può ritornare a respirare e la mia gente a sperare. Ieri è stato abbattuto il cementificio di Sapri in provincia di Salerno, in Campania. Una cattedrale nel deserto finanziata con i soldi della Cassa del Mezzogiorno. Erano più di sessant’anni che la struttura mai ultimata oltraggiava il panorama di una delle più belle baie d’Italia: la baia di Sapri nel Golfo di Policastro. Ieri, finalmente, si è chiusa la sua lunga e triste storia grazie all’impegno dell’attuale amministrazione che ha avuto il coraggio di puntare dove gli altri avevano sempre fallito o fatto chiacchiere. Tanti si sono spesi per questa causa. Vorrei ricordare solo l’impegno della giunta comunale capitanata dal sindaco Giuseppe Del Medico, di Legambiente e di Giorgio Zanchini che l’anno scorso, con coraggio, aveva dedicato un’intera puntata di Radio Anch’io in diretta da Sapri sul cementificio. Vorrei, infine, ricordare uno di quei compagni con i quali andavo a giocare all’ombra del mostro: Stefano Valentino, che aveva creato un comitato per l’abbattimento del cementificio e che, purtroppo, ci ha lasciati troppo presto e non ha potuto vedere lo stesso video che ho guardato io dalla Cina. Questo è l’esempio che i territori del Sud, i territori sfregiati e martoriati possono riscattarsi, possono rialzare la testa, possono riabilitarsi. Oggi è un giorno di festa!

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