Il fatidico sì e la prima notte. Prima parte: la ricerca della sposa

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Il fatidico sì e la prima notte. Prima parte: la ricerca della sposa

“Cari genitori, mi aguro prima di tutto che state bene come igualmente posso dire di me. Sapete sono alcuni giorni che ci penzo che ormai sono tre anni che mango da Marina perciò a maggio che viene volessi venire per rivedervi . Ma cè una novità. Stavolta mi volessi sposà con una bella guagliona e perciò vi chiedo di trovarmene una e dare parola con la sua famiglia. Vi raccomando di mandarmi una sua fodografia così la posso vedere. L’ultima volta che ho stato a Marina non avevo la testa a farlo e non me ne ricordo nessuna. Penso che farete una bona scelta e ne trovate una adatta a me, di bona famiglia e che non ci fria la testa. Aspetto la vostra risposta e vi abbraccio con affetto.”
I due genitori che hanno appena letto questo esempio ridottissimo di lettera inviata dal loro figlio dal Venezuela, in un italiano, diciamo così, alquanto approssimativo, si guardano negli occhi con aria interrogativa. All’improvviso avvertono che la monotonia della loro vita quotidiana è stata vigorosamente rotta da questa richiesta che li coglie un po’ impreparati.
– “E mò?” chiede il marito alla moglie.
– “Ehhh mò! Mò ‘nge ‘mma rara fa!”, risponde lei.
E’ solo l’inizio di un tormentato percorso di ricerca della futura nuora e del successivo atto di assolvimento della procedura promissoria con i suoi genitori.
Per l’individuazione della ragazza da prescegliere dividevano idealmente Marina in una sorta di carta topografica.
– “Chi ‘nge sta là a via Bolivar? Ma u vico luongo ‘nge sta pure Cenzenella (oppure Celardina, Minga, Suntulella, fate voi). I primi momenti erano una sorta di ubriacatura di nomi, una specie di gara a chi più ne sa più ne mette in gioco. Molto spesso questa caccia al tesoro si concludeva con un grosso diverbio fra i due genitori del tipo:
-” Ma che ‘bbai truvanne, chella è veramente bellella e accunciatella!”.
– “Ma a vuò mette cu chesta che è tanto graziusella quanne ‘nge sconta. A me chella me pare nu poco ìmmutriusella”.
Discussioni di questo genere spesso portavano i due a bisticciare anche animatamente ed entrambi trasferivano il loro puntiglio fino al riposo notturno. Per fortuna la notte portava consiglio e la mattina seguente raggiungevano l’accordo tanto agevolmente per quanto litigiosa era stata la ricerca. Da non sottovalutare in questa operazione due variabili: la simpatia e l’amicizia che li legavano con una famiglia piuttosto che con un’altra, e in quasto caso era decisivo il loro giudizio; e poi l’eventuale presenza di due o più figlie nella famiglia prescelta. In tal caso valeva una norma quasi ragionieristica che ci ricorda il metodo Fifo di valutazione delle scorte: primo entrato, primo uscito. Anche qui la prima nata era quella destinata per prima a rispondere alla richiesta di matrimonio.
Ma continuiamo a seguire nei loro movimenti i protagonisti della nostra storia. Di buon mattino escono di casa in direzione della famiglia destinataria “ra ‘mmasciata”. Sono consapevoli della gravosità del compito assunto e impettiti camminano per strada. Incontrano qualcuna che inevitabilmente “se ‘mbaccia ri fatti loro”.
– “Addò state jenne?”
La nostra mamma, anche lei come al solito, non riesce a tenere il cece in bocca ,
– “Iamme a ‘ffà na ‘mmasciata”, è la repentina risposta resa con aria ammiccante e sostenuta.
– “Ah. e jatinne allora” risponde quella abbastanza soddisfatta di aver saputo e di poter riferire alla prima che incontra…
Quando bussano alla porta li accoglie la faccia interrogativa e imbarazzata di un componente dell’altra famiglia che si affretta a chiamare tutti. I genitori della ragazza, intuita la finalità di quella “strana visita”, invitano gli ospiti nel salotto scusandosi, come sempre, “del disordine”.(Le scuse del disordine sono un classico tutt’oggi).  Seguono momenti di sperticate lodi da una famiglia all’altra partendo addirittura da lontano.
– “U vave tuie era veramente na brava persona e era assaie amico cu tata mio”. (vave e tata sono termini diversi per indicare il nonno).
– “Veramente i famiglie noste s’ennu sempe stimate e vulute bene”.
e giù di lì con affettuosi convenevoli e mielosi sorrisi. e quando il clima si è sciolto definitivamente prende la parola in modo solenne e ufficiale il papà del futuro sposo che per l’occasione sfoggia il suo incerto italiano.
– “Noi “emmu venute” qui per chiedere la mano di vostra figlia e bla, bla, bla…”
L’incontro si concludeva poi “dandosi parola” esprimendo cioè un impegno solenne di fidanzamento.
La prassi di chiedere la mano, allora abbastanza in voga, deriva dalla tradizione della civiltà romana e significava non tanto impalmare romanticamente la mano della ragazza, quanto piuttosto chiederne la potestà, la proprietà, secondo il vero significato della parola latina manus. Nel matrimonio cum manu infatti la tutela della donna passava dal padre al marito. Non era quindi la mano intesa in senso figurato, ma il potere sulla figlia. Non era la donna a decidere, ma il padre della sposa.
Per i giovani che invece stavano a Marina l’approccio fra i due sessi era disciplinato da una precisa regola: andare in casa. “E’ gghiuto a casa” si diceva infatti di un giovanotto fidanzatosi ufficialmente, dopo mesi di corteggiamento a rispettosa distanza, dopo interminabili giornate trascorse impalato a discorrere con lei sull’uscio, la mano che sfiorava la mano, mentre la madre, seduta in cucina a rammendare, sbirciava con occhio fiscale, e qualche sospiro profondo, i movimenti delle due ombre. Sbirciando si pungeva il dito, e col dito forse anche il cuore.
Quella soglia segnava il confine tra la libertà e il matrimonio, tra i voli della farfalla nei prati sconfinati e la prigionia “ru cardillo” in gabbia con “cibo” assicurato ma ripetitivo; tracciava il limite tra la possibilità teorica di inseguire tutte le donne senza mai (a taluno capitava) possederne una, e la certezza giuridica di averne una, salvo poi a rimpiangere tutte le altre. Siccome varcare quella soglia significava compromettere la ragazza, un giovanotto perbene ci pensava cento volte prima di fare il grande passo e chiedere la sua mano, che non era un patto imperativo, intendiamoci. Tuttavia il timore dello scandalo conseguente ad una eventuale rottura, lo rendeva praticamente vincolante come il sì pronunciato in chiesa.

Continua…

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