Degrado nei siti archeologici del Cilento. Il Parco archeologico “sommerso” di Roscigno: tra dirupi, rovi e sterpaglie qui la natura tragicamente impera (parte II)

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Degrado nei siti archeologici del Cilento. Il Parco archeologico “sommerso” di Roscigno: tra dirupi, rovi e sterpaglie qui la natura tragicamente impera (parte II)

Prosegue la nostra inchiesta sul grave stato di degrado in cui versano i siti archeologici del Cilento.

Dopo Sacco siamo ora giunti a Roscigno e più precisamente nel Parco archeologico di Monte Pruno dove più che la storia regnano l’incuria e il degrado.

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§ 3. Le evidenze del sito

Il pianoro e le pendici del colle sono disseminate di tracce materiali che documentano un’articolata e lunga occupazione su un’area quanto mai vasta ed estesa, tanto sul versante meridionale che si affaccia verso la piana pestana quanto su quello occidentale ed orientale verso il Vallo di Diano ed il corso del Sammaro.

La ricognizione di superficie fu realizzata per aree campione individuate preliminarmente sulla base della presenza di tratturi e mulattiere che segnano il colle sui diversi versanti rendendo facilmente raggiungibili i pianori e le terrazze dove, presumibilmente, potè strutturarsi un abitato.

La maggiore concentrazione di materiali antichi si rinvenne sulla cima di Monte Pruno e sulle sue pendici sud, per un’area di circa 800 m di lunghezza per 200 m di larghezza; tuttavia le terrazze che degradano sul lato occidentale verso Sacco presentarono anch’esse consistenti tracce di abitazioni e sepolture, confermando quindi un’occupazione strategica dell’intera area.

I materiali più antichi si incarnano in alcuni frammenti di vasellame di impasto scuro, lavorato a mano per le cui forme e tipologia di impasto possono appartenere ad una fase piuttosto antica dell’età del ferro (VIII sec a.C.).

Evidenze macroscopiche invece segnalano nel corso del IV sec. a.C. la presenza lucana con tracce relative alla nascita di un’edilizia pubblica e privata. Parliamo di strutture abitative disseminate su tutto il pianoro con planimetrie molto semplici e copertura in tegole e coppi.

È nella seconda metà del IV sec. a.C. che il pianoro fu circondato su tre lati da un poderoso muro di fortificazione costruito con un alto zoccolo in grossi blocchi di calcare locale tagliati secondo una tecnica di tradizione greca. Al margine S/E del pianoro si delineò una torre quadrangolare. In questo tratto furono recuperati gli elementi più chiari per datare l’impianto che risale alla seconda metà del IV sec. a.C.

Una serie di muretti a secco pertinenti a strutture di abitazioni più antiche furono coperti quando fu tracciata la fondazione della cortina anteriore; i pochi frammenti vascolari recuperati datano questa prima fase edilizia alla prima metà del IV sec. a.C. fornendo così il termine dopo il quale fu costruita la fortificazione.

Lo scavo mise in luce circa 70 m del muro di cinta individuando anche una porta lungo il lato S/O del colle. La fortificazione fu viva almeno fino agli ultimi decenni del III sec. a.C. quando un fenomeno distruttivo (non si sa se bellico o naturale) determinò il crollo dell’elevato, costruito in materiale deperibile, e della copertura della torre trovata in posizione di crollo misto a moltissimo legname carbonizzato. I materiali recuperati dal crollo collocano la distruzione e l’abbandono nei decenni finali del III sec. a.C.

Il circuito murario delimita il pianoro del colle e racchiude un’area piuttosto vasta ed estesa certamente non interamente occupata da abitazioni né vi è alcuna traccia di un’organizzazione di tipo urbano sul pianoro tale da ipotizzare un abitato complesso da difendere; dunque quest’ampia recinzione doveva servire ad accogliere, nei momenti di pericolo, le genti che abitavano nelle campagne circostanti e lungo i pendii che trovavano così riparo e protezione nell’ambito del circuito protettivo.

A monte della grande sepoltura a cremazione scavata nel 1994 fu individuata una grande unità abitativa solo parzialmente messa in luce che si organizza strutturalmente intorno ad un cortile centrale con vani addossati al pendio sfruttandone la pendenza e vani prospicienti la famosa “trazzera degli stranieri” che corre ad una quota inferiore immediatamente sottostante.

La casa, di tipo monumentale con una superficie tra i 400 ed i 500 mq, presentava un’articolazione in vani di servizio a vani privati, che si disponevano intorno ad una corte scoperta a pianta grosso modo rettangolare. Il tetto era a doppio spiovente ed era decorato con terrecotte architettoniche. La funzione dei vani non fu sempre identificabile però la presenza di un grosso pithos per derrate alimentari conficcato nel terreno definì l’ambiente di deposito/cucina, peraltro identificato anche dalla presenza del focolare. La residenza, di tipo gentilizio, fu costruita nella seconda metà del IV sec. a.C. e vissuta almeno fino ai primi decenni del II sec. a.C., quando un violento incendio ne distrusse l’ossatura lignea. Il complesso trova ampi confronti in area lucana confermando l’identità culturale della famiglia gentilizia che la occupò, un dato che trovò un’ulteriore conferma nel rinvenimento di una piccola necropoli pertinente con ogni probabilità alla struttura abitativa e posta ad una quota leggermente più elevata.

Le sepolture, del tipo a semicamera affiancate fra loro, presentavano lo stesso orientamento N/S.

Per la maggior parte depredate e distrutte formavano un nucleo molto omogeneo sia per tecnica costruttiva che per rituale funerario che si differenziava da quello più antico se non altro per la presenza del defunto disposto in posizione supina, secondo le costumanze funerarie proprie dei Lucani.

Ciò che rende l’evidenza archeologica di Roscigno un unicum è il permanere del rituale del rannicchiamento che potrebbe, forse, essere la spia di un’integrazione tra gruppi etnici differenti e di una convivenza tra realtà differenziate.

CONTINUA

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