Terra dei fuochi Cilento, via al processo il 5 dicembre. Pm: «Non c’era bisogno di Schiavone, già sapevo»

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Terra dei fuochi Cilento, via al processo il 5 dicembre. Pm: «Non c’era bisogno di Schiavone, già sapevo»

Alla trasmissione di canale 5 ‘Le Iene’ è intervenuto ancora una volta Carmine Schiavone, l’ex boss del clan dei casalesi. Sono dichiarazioni scioccanti le sue e ancora di più lo sono le parole dei cittadini di Casal di Principe intervistati dalla Iena Nadia Toffa. Schiavone da pentito nel 1993 ha raccontato tutto allo Stato. Il traffico di rifiuti provenienti dalla Germania, Svizzera e Austria fruttava alla camorra miliardi di lire. Lo Stato, però, cosa fa, invece di agire nel 1997 ha secretato tutte queste informazioni, cioè sono diventate inaccessibili e fino a pochi giorni fa chi avesse tentato di fare chiarezza su questa storia, divulgandola, avrebbe rischiato da 3 a 24 anni di galera. In parole povere lo Stato è venuto a conoscenza di fatti molto gravi, non sappiamo se li ha verificati o meno, ma li ha sicuramente tenuti nascosti per oltre 16 anni.

Il problema della ‘Terra dei fuochi’ non appartiene solo alla provincia di Napoli, Roma e Caserta. Un traffico di rifiuti tossici c’è stato anche nel Cilento e Vallo di Diano. E’ bene che questo i cittadini lo sappiano e, se il procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere, Corrado Lembo, il magistrato più accreditato alla successione di Roberti alla procura di Salerno, ha detto, in un convegno organizzato da Legambiente a Battipaglia, che «non c’era bisogno delle rivelazioni di Carmine Schiavone» perchè «ho visto montagne sventrate e cavaioli che hanno perpretato lo scempio», allora la situazione è più allarmante di quanto si pensasse. Ma cosa si è fatto per evitare tutto ciò? Oggi è più importante preoccuparsi e rimediare oppure cercare i colpevoli di questa strage ambientale senza precedenti?

In attesa di tutto ciò e soprattutto del processo ‘Chernobyl’ che inizierà il 5 dicembre prossimo nelle aule del tribunale di Salerno, come ha fatto Schiavone alle Iene per il nord della Campania, noi cerchiamo di indicarvi le zone a sud di Salerno più a rischio. Gli occhi sono puntati senza dubbio sul Vallo di Diano, ma c’è un altro bubbone che forse non è mai scoppiato abbastanza da creare un caso. E’ la discarica di Colle Barone, a Montecorvino Pugliano, che insieme a quelle del Castelluccio (Battipaglia), Femmina Morta (Eboli), Macchia Soprana (Serre) e Basso dell’Olmo (Campagna), formano una mappa che, se non di fuoco, può essere definita almeno «rossa» e che circonda l’intero Parco nazionale del Cilento.

La discarica di Colle Barone risale agli anni ottanta e dal 1982 in poi fu gestita dall’imprenditore del calcestruzzo Filippo Troisi (morto nel 2009) e finì in una serie di vicende giudiziarie legate allo sversamento di rifiuti tossici. La discarica, con l’annessa cava, è stata sequestrata qualche anno fa, ma già nel 1999 l’Anpa (Agenzia nazionale per la protezione ambientale) era a conosceva che in quella discarica era stato sversato di tutto. Non solo quindi i rifiuti solidi urbani così come fu previsto nelle autorizzazioni comunali che avevano dato l’ok alla realizzazione del sito. Nella datata relazione, inviata anche al commissario per l’emergenza rifiuti della Campania, all’allora sindaco di Montecorvino Pugliano, Giuseppe Palo (arrestato nel 2004 e condannato in via definitiva per un intreccio politico-mafioso) e al Corisa2, i tecnici dell’Anpa avevano individuato tracce di ammoniaca, nitriti, nitrati, tricloroetilene e metalli pesanti (piombo e cromo) nei pozzi a valle della discarica. Risultato? «Le acque non risultavano utilizzabili a fini potabili». In più era stato accertato che in discarica erano stati sversati pile esauste, rifiuti ospedalieri, scarti di lavorazioni artigianali, di office, di lavanderie, di carrozzerie e fanghi di depurazione e misti di residui di concerie.

Il fondo della discarica non era stato ricoperto con uno strato di argilla che ne garantisse l’impermeabilità e dal sito «percolavano liquami scuri che si raccoglievano a formare uno stagno in una adiacente cava di sabbia». Inoltre «Gli ampliamenti dell’attività estrattiva nella zona non erano stati autorizzati». Ma l’aspetto più inquietante riguardava la scoperta di alcuni bidoni «contenenti probabilmente rifiuti tossico-nocivi» sversati nell’area coltivata in parte ad uliveti e la presenza di un acquifero in zona utilizzato dagli agricoltori per irrigare i campi e dalle industrie di trasformazione dei prodotti agro-alimentari. L’iter per il progetto di bonifica, firmato Corisa2, è partito nel 1998, costo totale quasi 20 miliardi di vecchie lire, e prevedeva lo spostamento dei rifiuti da una zona all’altra. «Pericoloso per l’area circostante e per gli addetti ai lavori» è la replica dell’Anpa e il progetto viene bocciato. Il risultato, allora come ora, resta sempre lo stesso: «L’inquinamento della ricca falda acquifera presente nell’area è una certezza e non un rischio». Ma cosa è stato fatto per evitare i danni? Sequestrare non significa bonificare. E in tempi di bonifiche rese necessarie dallo scandalo mediatico, il presidente di Legambiente Campania, Michele Buonomo, avverte gli amministratori: «Attenti a chi viene a bussare ai Comuni con le valigette in mano e un progetto di bonifica». La camorra fiuta sempre gli affari, soprattutto se le istituzioni lasciano passare 15 anni per risolvere il problema discariche.

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