24 giugno 1836, «stupro mancato» a Marina di Camerota

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24 giugno 1836, «stupro mancato» a Marina di Camerota

Si parla e si sente di atti di violenza sulle donne, fatti incresciosi e/o tragici che per lo più avvengono all’interno della cerchia familiare. E’ un aspetto proprio della società contemporanea? Purtroppo no. Durante una mia ricerca mi sono imbattuto in una querela del 1 luglio 1836 in sintonia con ciò che accade oggi. L’episodio è il seguente: Vito Farnetano, operaio della Marina di Camerota, figlio del bovaro e perito di campagna Gabriele e di Samaritana Riccio, presenta una querela al Giudice Regio di Camerota, Tommaso Moscato per un episodio accaduto alla  giovane moglie, Vincenza Talamo. La coppia coabitava con i genitori di lui, in una casa di campagna, zona Sereni Capogrosso, mentre il paese di Marina altro non era che un casalino posto tra le due sponde del torrente (Isca, Trinta o delle fornaci) che divideva i due comuni di Camerota e Lentiscosa. Perché una casa lontana dall’aggregato di abitazioni? Mancava lo spazio letteralmente per costruire case essendo i terreni di fronte al mare di proprietà private quali l’ex feudatario Marchese, le famiglie Sofia, Palermo e sopratutto il Clero di Camerota.

Su questi terreni erano state edificate una a fianco all’altra case nuove per affittarle ad alto prezzo sia ai nuovi immigrati che alle nuove famiglie formate da persone nate in loco e desiderose di avere un tetto proprio e non spazi esigui superaffollati, a volte una stanza per un’intera famiglia. Per questi motivi alcuni, tra cui Gabriele Farnetano e Samaritana Riccio, avevano lasciato l’aggregato e fatto la difficile scelta della campagna dove era più facile trovare spazio per gli abituri e dove riusciva a svolgere la sua attività di bovaro. Il figlio Vito, ventisettenne si guadagnava da vivere con la fatica delle sue braccia essendo muratore (lo ritroviamo qualche anno dopo quale fornitore di calce) mentre la moglie ventitrenne era contadina e svolgeva faccende domestiche. La scelta della coabitazione era stata obbligata anche se altri due figli maschi, Gennaro e Vincenzo, avevano fatto scelte diverse.

Dunque Vito Farnetano il 1 luglio 1836 si rivolse al Giudice mandamentale per avere giustizia, accusando il fratello Vincenzo di stupro, armata mano di stilo, arma vietata, nei confronti della moglie Vincenza Talamo mentre la stessa tornava a casa dopo aver attinto acqua nel pozzo detto “Li Sereni” e aver riempito un barile. Dalla querela si evince che il 24 giugno alle ore 22 circa, Vincenza era andata al cosidetto… “pozzillo, posto nella scogliera della Marina di Camerota, nel luogo detto Sereni, ed essendo pieno il barile di acqua se ne tornava in casa, quando vide arrivare suo cognato, mio fratello Vincenzo Farnetano, il quale li disse dov’è Vito, ed essa mia moglie rispose è qui sopra, e come era un alto scoglio da salire (il pozzillo era posto tra gli scogli prossimo alla riva del mare, mia nota) posò il barile che teneva in testa per posarselo nuovamente dopo salito lo scoglio, allora il detto mio fratello Vincenzo la prese pel braccio facendogli conoscere che la voleva abusare nell’onore, e  questa voltò all’altra parte dello scoglio per sfuggire, ma Vincenzo l’afferrò per la gonna, indi per la gola, che ne riportò delle lividure ed in mentre cacciò cacciò fuori il membro virile al che la detta mia moglie gli tirò un calcio e questo vi è maggiormente acceso di fuoco la prese di nuovo per la gola e vedendo che mia moglie si svincolava per non stare con esso la prese per tirarla a mare. Spiego che nel ciò fare il Vincenzo Farnetano teneva al fianco un coltello lungo circa un palmo, col manico nero che lo prese per ferirmi che poi non fece per la forza che detta mia moglie fece e per le grida”. Intorno non c’era nessuno essendo zona disabitata e lontana dalle poche case di Marina. Le parole di Vito si confondono con quelle della moglie. Il fatto venne raccontato a Vincenzo Scarpitta, anni 18, operaio con casa ai Previteri, altra zona allora in aperta campagna e scelta per abitazioni più economiche, ma abbastanza vicina a quella di Gabriele Farnetano.

Infatti, questo giovane era andato a casa Farnetano ai Sereni  e si tratteneva a parlare con i suoceri di Vincenza quando questa tornò tutta agitata e riferì ciò che era accaduto. Il Giudice il 1 agosto convocò a Camerota  lo Scarpitta per avere elementi. Costui non mancò alla chiamata e si recò a Camerota presso l’ufficio del Giudice all’interno dell’ex monastero dei padri cappuccini percorrendo la strada che dai Previteri saliva al Canto e quindi dopo un ponte di legno giungeva al giardino dell’ex convento. Riferì al Giudice che aveva visto Vincenza Talamo rientrare in casa dei suoceri, coi quali coabitava, recando con sé un barile col quale era andata a prendere acqua in un pozzo “sito nella contrada detta Capogrosso, seu Sereni. Dalla testimonianza di Vincenzo Scarpitta: la donna raccontò che mentre attingeva acqua… “era stata assalita da Vincenzo Farnetano altro figlio di detto Gabriele che vive separatamente dal padre e che dal medesimo Vincenzo era stata violentata nell’onore e, disse ancora, che in tal’atto era armato di coltello lungo, ma che non vide il deponente violentare la Vincenza Talamo né minacciarla col coltello perché non stava in quel luogo, ma ben vero in casa di esso Gabriele Farnetano, ch’è sita in qualche distanza dal luogo in cui era accaduto”.

Riferiva, quindi, quello che disse la donna nel suo rientro a casa a lui e ai suoceri. La presunta vittima Vincenza fu invitata dal Giudice Moscato a presentare prove ovvero “elementi per somministrargli alla Giustizia sul conto di Vincenzo”, ma la donna non ne aveva e rispose negativamente: era la sua parola contro quella del cognato essendo il “Pozzillo” luogo per attingere acqua in ambito…”recondido senza alcuna strada di passaggio”. La faccenda, attesa la scarsità di prove oggettive non poteva avere altro percorso che l’archiviazione e, infatti, così la Gran Corte Criminale di Salerno si espresse il 13 febbraio 1837 dichiarando abolita l’azione penale…” per insufficienza di indizi e per la Reale indulgenza del 26 gennaio 1837”.  Viene da dire nulla di nuovo sotto il sole.

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