Sicuramente l’attuale seme Maracuoccio/Maricocci è della famiglia delle leguminose. Gli studi sono stati tanti,specie per il genere Pisum che presenta molti tipi spontanei, assai diversi dal punto di vista morfologico.
Tutti i tipi, però, sia spontanei che coltivati, hanno in comune lo stesso numero di cromosomi che indurrebbe a non usare nomi differenti. In recenti studi il Pisum Arvense sarebbe la specie maggiore e tutte le altre sarebbero delle varietà. In diverse parti d’Italia il Pisum lo si trova allo stato spontaneo, utilizzato come foraggio per il bestiame, anche se a Colfiorito (Perugia) se ne ricava una polenta detta “farrecchiata” e il seme Roveia.
In Campania, solo a Lentiscosa lo si trovava coltivato a scopi commestibili, seminato in terreni non altrimenti sfruttati da colture, aree povere a resa bassa. Si seminava in gennaio-febbraio in piccoli o piccolissimi appezzamenti anche scarsamente fertili, senza presenza di acqua, essendo naturalmente molto resistente alla siccità e agli agenti iperfrigeranti. Ciò lo rendeva prezioso per quella parte della popolazione che non aveva possibilità di seminare altro. La raccolta a luglio, quando la piantina, bassa, era giunta a maturazione coi suoi piccoli baccelli.
Era tutta la pianta, e lo è tutt’ora, ad essere strappata dal suolo, una per una, per poi metterla a seccare al sole estivo e ad essiccazione completa, si potevano ottenere i piccoli semi (cuocci in dialetto lentiscosano perché ricordavano i porri della pelle indicati con questo nome) previa battitura, ma con l’accortezza di mettere sotto le piantine un telo, dei sacchi onde non disperdere gli stessi semi. Il colore di questi è vario, dal marroncino al perla, un po’ squadrati.
Dopo la raccolta, modesta per non dire scarsa, i semi venivano ridotti in farina grazie alle “macinelle” ovvero due dischi di pietra di cui il superiore mobile e forato al centro. Dal foro s’inserivano i semi (ciò valeva anche per altri farinacei) e con la forza delle braccia si faceva girare la mola superiore dotata di un manico.
A Lentiscosa queste macine erano presenti in tutte le famiglie più facoltose. Una di queste, famiglia Zito, ne aveva alcune poste a batteria, fittate a chi aveva bisogno di macinare granaglie, lasciando una parte del ricavato come paga in natura. Un artigiano che le costruiva, lavorando la pietra (tratta dalla località il Lavinaio e le Mole a Lentiscosa e la scogliera a Marina di Camerota che è chiamata Macinelle per l’appunto) da me intervistato all’inizio degli anni Ottanta, è stato Luca Marotta, per antonomasia zio Luca. Mi è stato riferito che anche le piante a semi neri erano consumati, sebbene da singola persona. Ciò non deve meravigliare perché la quantità dei Maracuocci/Maricocci è sempre stata assai limitata essendo faticosa la lavorazione, non proporzionata alla rendita.
Ho rinvenuto la prima notizia dei Maracuocci/Maricocci in un documento che riportava meticolosamente la questua in paese per la festività di Santa Rosalia, registrata sotto l’anno 1805: frate Antonio oltre a un tomolo e stoppella sette di grano ebbe anche un rotolo e mezzo di “maricocci” (cioè 1.335 grammi pari a ducati 0,10). Il valore è indiscutibilmente basso, come pure la quantità, ma si tratta di un’offerta di un fedele che aveva i maricocci in casa e li donò per la festa della padrona Santa Rosalia. Ancora, ho rinvenuto in archivio altre notizie: dal comando della 227^ Divisione- Ufficio di Collegamento con 51 TOWN Major- prot n. 894/H2 novembre 1945, lettera inviata a Camerota, al Genio Militare Italiano, al Presidio Militare di Salerno dal tenente colonnello Andrea Latella che dice :” Il TOWN MAJOR di Salerno con f. TM 27/443 del 16 ottobre 1945 ha comunicato che l’isola di Camerota dal 16 ottobre 1945 non sarà più usata come zona di esercitazione tiro”.
Potrebbe sembrare estranea la notizia, ma da questa deriva la possibilità di chiedere i danni per i tiri di esercitazione della flotta alleata nelle terre occupate quali “zona di fuoco”, tiri che danneggiarono, ad esempio la torre di Cala Bianca forandola. Tanti furono i danni e schegge di bombe sono state raccolte da più persone anche per trasformarle in attrezzi o solo per ricordo (ne conservo una che raccolsisu Monte Pistillo durante un’escursione giovanile).
Da questa creduta possibilità di chiedere un rimborso è possibile conoscere le coltivazioni del Comune di Camerota: olivi, peri, mandorli, meli, fichi, viti, carrubi, grano, orzo, granturco, fave, favette, fagioli, patate, pomodori, zucchine, piselli, noci, castagni, ciliegi, sorbi, nespoli, gelsi, susini, peschi, ma anche lupinelli, lupini, cipolle nonché lino (due soli terreni). Non manca la coltivazione dei maricocci: Del Gaudio Gaetano fu Giuseppe a Gariniello lamentava la mancata produzione di “Vizzi seminati kg 2”; Bellucci Giuseppe fu Francesco a Vaiamonte “Vizzo bianco seminato kg 4”; Del Gaudio Antonio fu Gaetano a Varco del Nocillo danni a 4.000 mq di terreno a “Vecce”; Russo Salvatore fu Antonio a Linfreschi, danni a 20 are a “Veccia”. Su 144 richieste totali il termine Maracuocci/Maricocci non è assolutamente riportato se non nel nome di “Vizzi-veccia-vecce” e solo in quattro richieste degli stessi proprietari lentiscosani.
Prodotto di nicchia, piccola nicchia, oggi i Maracuocci/Maricocci sono ricercati da chi viene in vacanza sulla nostra splendida costa, sotto forma di polenta chiamata in dialetto “Maracucciata”, deliziosa per il leggero sapore amarognolo. La sua preparazione ha ormai regole fisse essendo un prodotto presidio Slow Food dal 2016.
Atteso che a Lentiscosa il più antico nome ufficiale di questo genere di Pisum, anno 1805, è “Maricocci” sarebbe forse corretto usarlo al posto di “Maracuocci”, voce diffusa in paese, ma più recente. Per altre informazioni storiche su Lentiscosa vedi la mia ricerca “Santa Rosalia e Lentiscosa, storia civile e religiosa di un paese del Cilento” Palladio ed, SA, 2008
Tutto il territorio del Golfo di Policastro è stato frequentato/abitato già in epoca preistorica: reperti del Paleolitico Inferiore rinvenuti in costa tra Capo Infreschi e Capo Palinuro e presso Scario. Altre tracce del Paleolitico Medio nelle stesse zone e sul monte Cervati Vallicelle. Per periodi più vicini quale il Bronzo Appenninico reperti importanti vicino Porto Infreschi e Scario, Sapri (grotta Cartolano e Carnale) e valico dello Scorzo. La scoperta intorno a Sapri rimanda ad un nodo di comunicazione tra le valli del Noce-costa ionica e tirrenica, cioè una via di comunicazione tra il Golfo di Policastro e il Golfo di Taranto o almeno di camminamenti di genti nomadi per l’attività predominante, la pastorizia, che vivevano nella zona del Siris e la vallata del fiume Noce, tenuto anche conto dei ricchi pascoli che costituiscono le valli tra il Monte Coccoviello Serralunga, Cocuzzo, Pannello, Juncolo e l’abbondanza delle acque per l’abbeveraggio del bestiame. Tanti storici parlano allora delle “vie istmiche”. Questi insediamenti si differenziano da quelli costieri per la presenza di numerosi gruppi di genti enotrie, non isolati, dediti all’allevamento del bestiame; gli insediamenti costieri per lo più erano frutto della colonizzazione greca a partire dal secolo VIII a C., prediligendo, tra le attività di sostentamento, la pesca e la raccolta di molluschi affiancata alla produzione e allo scambio di manufatti. La fase finale del Bronzo è tutt’ora in fase di studio, ma si ebbe certamente la diffusione dell’incinerazione che ha caratterizzato una certa unità culturale del periodo. Ugualmente poco conosciuta, per il Golfo di Policastro, l’età iniziale del Ferro, per la quale bisognerà attendere il VI secolo a C, in piena colonizzazione greca per avere testimonianze certe, quali la fondazione di Pixunte che utilizza monete in comunione con Siris, a parziale conferma di quanto sinora detto. A tale riguardo questo centro sembrerebbe più un insediamento indigeno ellenizzato, che un vero e proprio centro greco, perciò già esistente prima dell’VIII secolo a C.
Lungo la fascia costiera cilentana troviamo coloni greci sin dal II millennio a C per l’espansione dei traffici micenei, quindi relazioni commerciali tra la Grecia e le regioni meridionali, forse vi furono correnti migratorie dall’area orientale egea verso l’Occidente. I centri greci o di influenza greca, in Campania sorsero a diretto contatto con il mare, perciò in funzione essenzialmente di porto, e in ordine alla loro situazione geografica, si dividono in tre gruppi:
1) colonie fondate per il controllo delle rotte importanti;
2) colonie di archi costieri per sfruttare le risorse del retroterra;
3) subcolonie sorte alo sbocco di vie istmiche.
Poisedonia e Pixunte sono da annoverare al terzo gruppo. Relativamente a Pixunte, individuata nella Buxentum latina, odierna Policastro Bussentino, essa è di origine enotria ed era collegata alla Sirtide attraverso il fiume Bussento, Vallo di Diano (densamente popolato per l’abbondanza di pascoli) e la Valle del Sinni. Strabone la ricorda assegnando lo stesso nome al porto, alla città e al fiume. Prima del V secolo nessuno storico la cita, è, però, già presente nella numismatica del VI secolo. Secondo Diodoro Siculo, Micito, reggente e tiranno di Reggio e di Messina, tutore dei figli di Anassilao, vi inviò una colonia nell’anno 471-470, ma il centro era esistente come da numismatica, poi caduto in rovina a causa del crollo della città di Sibari (510 a C per opera della nemica Crotone) da cui dipendeva con la consociata Siri. La città fu abitata anche durante l’occupazione lucana fino al 280 a C. La certezza che la zona fosse importante per i traffici marittimi dei popoli del Mediterraneo, oltre che asserita da più storici, è confermata da un ritrovamento di resti di mattoni in Policastro, classificati di tipo velino del IV secolo a C. Possiamo asserire che i traffici dovevano essere estesi, abbracciando le colonie greche, affacciantesi sul Tirreno. Anche le monete, rinvenute un po’ ovunque, confermano questa tesi. La popolazione non s’era stanziata solo sulla costa, ma fruiva delle zone interne (chora) vuoi per trafficare con i popoli italioti, vuoi per la legna, il legname da costruzione, la pastorizia e, ovviamente l’immancabile agricoltura.
A partire dal V secolo, a seguito delle migrazioni dei Sanniti dal nord, fanno la loro comparsa i Lucani, appartenenti alle genti sannitiche, essi occupano (oltre che Poseidonia) siti d’altura come Roccagloriosa, Caselle, Sanza, Torraca alcuni dei quali già frequentati in precedenza, ma solo dalla metà del IV secolo tutta la regione vede lo svilupparsi di un sistema insediativo con abitati fortificati da imponenti cinte murarie tranne l’eccezione di Laurelli (Caselle in Pittari) che comunque è ben posizionata. Gli stessi popolano le campagne con fattorie e piccoli agglomerati rurali o “vici”, la cui vita è in funzione residenziale e produttiva con una durata dal IV al I secolo a C. Essi sono il nucleo vitale della società lucana del Golfo di Policastro, numerosi e disseminati intorno ai fiumi Mingardo, Bussento e Bussentino. La zona interna al Golfo rientrava sì nella fascia di pertinenza dell’insediamento greco, ma non distante dal territorio dei Lucani sontini (Sanza) e da Roccagloriosa, importante centro lucano. Secondo Plinio, Strabone, Dionigi di Alicarnasso e Cluverio si tratterebbe di Enotri che dominavano le terre fino al Sele e a sud Lao fino al fiume Bradano, praticamente, quella che più tardi verrà indicata come “Lucania”. Trattasi sempre di popolazioni mai omogenee, ma composite, ciò spiega denominazioni quali Itali, Morgeti, Siculi, Enotri ecc pur facendo riferimento alla stessa zona geografica con inconsistenti frontiere tribali e fluida situazione etnica: un gruppo di tribù appartenenti ad un unico ceppo di origine sannitica, indicato con il nome di “lucani”. E’ la convinzione di diversi storici antichi che sostennero l’invio nell’Italia Meridionale di più tribù come coloni per poter controllare questa regione ed eventualmente contrapporsi alla colonizzazione greca. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scrive che l’Italia Meridionale era tenuta dai Pelasgi, dagli Enotri, dagli Itali, dai Morgeti, dai Siculi e in seguito dai Lucani nati dai Sanniti, comandati da Lucio da cui venne il loro nome. I confini con questo autore diventano più certi: dal Sele in giù con l’oppidum di Paestum, Velia Buxentum, Lao. Lo stesso sostiene Strabone riferendosi a Timeo, a Posidonio e ad Eratostene, il grande geografo-bibliotecario di Alessandria del III secolo a C. Per far fronte ad una calamità, o ad una concentrazione demografica, una parte della popolazione emigrava: è il caso dei Lucani che si allontanarono dai Sanniti e, dopo anni di lotta, intorno alla metà del IV secolo a C, divennero i veri padroni dell’entità regionale che prese il nome dal loro etnico. Essi si preoccuparono di presidiare e sfruttare le zone interne, avendo difficoltà espansive verso le coste, ove si scontrarono con i Greci, che le avevano occupate: tutto il litorale dal Golfo di Taranto fino alla foce del Sele, circumnavigando la Calabria. Strabone scrive, infatti, che i Greci ed i Lucani combatterono per lungo tempo tra di loro. In più occasioni l’autore parla dei Lucani come di un popolo dell’interno, che si spostava lungo itinerari dettati dall’esperienza della transumanza stagionale, per l’esigenza di pascoli invernali in pianura e di pascoli estivi con possibilità di abbeveraggio. Questo popolo, però, non compare nel minuzioso elenco delle popolazioni barbariche immigrate, statuito da Dionigi di Alicarnasso, vi compaiono bensì i Brettii (ribelli fuggiaschi), forse perché i primi non erano considerati barbari come i secondi. I Lucani erano organizzati per città/perno, intorno a cui ruotavano tanti altri piccoli stanziamenti in funzione economica (nuclei isolati di fattorie in zone di sfruttamento pastorale e agricolo e che, in momenti di tensione, potevano essere abbandonati per ritirarsi nei centri più grandi forniti di mura) e a volte in funzione difensiva (“loca munita” di tradizione liviana). Questi centri più piccoli, a volte solo stagionali, erano dipendenti e tributari delle città/perno. Il tutto nell’ottica di un’ottimizzazione del territorio, inteso come patrimonio da salvaguardare, sia in chiave economica che militare. Per educare i propri figli, a dar retta a Giustino e a Strabone, utilizzavano i pastori al loro servizio, chiamati Brettii, dopo la loro ribellione (anno 356 a C): “sic ad labores bellicos indurabantur”, ovvero come modello di vita pastorale, privi di servitù, senza inutili indumenti e lontani dagli usi e agi urbani. Sin dalla pubertà questi ragazzi vivevano nelle selve, fra i pastori, cibandosi delle prede di cacciagione, latte e di acqua di sorgente, così da temprarsi ad una vita difficile, dura, in cui solo i più resistenti e capaci riuscivano ad avere la meglio. La scissione tra Lucani e Brettii è avvenuta quando i secondi parteciparono alle scorrerie/azioni belliche a fianco dei primi, conquistando sul campo il diritto di parità. Alla scissione contribuirono i giovani lucani, addestrati “ab origine” della loro vita all’ “ars belli”, così come descritto, diventando protagonisti della maturazione sociale dei Brettii. La stessa presenza di Lucani all’interno dei Brettii impedì una risposta violenta della gente lucana e, nel contempo, fece riconoscere autonomia politica ai Brettii che si collocarono al di là del fiume Lao. Evidentemente il distacco avvenuto intorno alla metà del IV secolo, rappresentò una forma di ribellione politica contro l’aristocrazia lucana, la stessa che viveva nelle città/perno, in antitesi politica con i piccoli centri che sfruttavano il territorio, quando ormai molti Lucani risultavano ellenizzati e i contatti con l’elemento greco della costa era ben saldo, valendo la regola che un popolo forte a contatto con un altro più debole, ma maggiormente civilizzato (i Greci) tende a imitare quest’ultimo. I due popoli ci pervengono, ormai, divisi, secondo la testimonianza di Diodoro, nell’anno 346 a C, quando i soli Lucani attaccarono Taranto e nel 344 a C i Brettii si scontrarono con Turi: sono entità distinte, fermo restando che con il termine “Lucani” s’intende il complesso di più civiltà, raccolte in città/perno, quali i Bantini, i Sontini, i Consilini, gli Atini etc. Ciò induce a pensare a una politica non sempre unitaria, ma diversificata secondo le esigenze delle singole città, il che spiegherebbe il perché una parte dei Lucani combatte, ad esempio, al fianco di Alessandro il Molosso (340 a C), chiamato da Taranto, e un’altra contro; oppure, altri sono con Roma e tal’altri con Annibale. Livio asserisce che coorti lucane al comando di Gracco, devastarono la campagna del territorio lucano. Ancora, si potrebbe trovare una diversificazione più che per le singole città, per i partiti: gli oppositori si schierano comunque dalla parte dei nemici, nel tentativo/speranza di ribaltare la situazione socio politica. Nuova alleanza nel 298 a C tra Lucani e Romani, sempre per il timore dei Sanniti (terza guerra sannita). Intanto i plebei lucani, la “multitudo agrestium”, si allineano con i Sanniti e nel 296 a C si ribellano ai nobili, ma vengono “pacificati” con l’aiuto dei Romani. La partecipazione delle popolazioni lucane all’espansione romana, o almeno quella del partito degli aristocratici cittadini, permette di avere altra notizia sulla zona del Golfo di Policastro, riportata da autori latini nel ricordare i fasti degli eredi di Romolo. La popolazione dei campi, come detto, avversa a questa linea politica, gelosa della propria libertà e avendo da perdere pochissimo, sparsa com’era, tra le vallate e i monti della Lucania.
Dott. Prof Angelo Gentile, Già tutor per i docenti di storia, ricercatore storico e pubblicista.
Nel giugno 1996 espletati gli Esami di Licenza Media per gli alunni di Camerota Capoluogo quale Presidente della Commissione, affrontai l’argomento cappella di San Vito con la professoressa di lettere Grazia Pomarico e con il professore di educazione tecnica Salvatore Calicchio perché un alunno durante il suo colloquio aveva parlato dei monumenti presenti in Camerota e aveva citato la cappella. I due docenti mi diedero indicazioni (non avendola io mai vista, al contrario di altre chiese) per raggiungerla essendo essa vicinissima alla sede degli esami, anzi il prof Salvatore Calicchio si offrì gentilmente di mostrarmi il sito che si trovava, in prossimità della scuola Angelo Poliziano.
La “cappella” risultava scavata nel tufo e vi si accedeva, dopo breve salita, attraverso un’apertura senza alcuna porta, all’interno si notavano sei nicchie, due a dx, due a sx e due sulla parete di fondo. Queste ultime intramezzate da una specie di altarino, dove si poteva notare qualche simbolo cristiano. Il locale squadrato è ricavato sotto un terrazzamento, poco discosto dal monastero dei Cappuccini. Alla domanda di cosa poteva essere risposi immediatamente, memore di due esperienze pregresse, una da divulgatore storico e l’altra da storico. Ricordavo, infatti, di aver visto simile struttura a nicchie in occasione di un mio intervento quale guida, richiesta, pro amici di Modena in visita ad Ischia: li accompagnai tra l’altro al Castello aragonese e poi al Convento delle Clarisse ed alla sua chiesa dell’Immacolata, fondato nel 1575 dalla vedova d’Avalos per ospitare le figlie delle famiglie napoletane nobili, destinate a non sposarsi per non disperdere il patrimonio fondiario. Sotto la struttura cristiana potei far visitare agli amici (qualche signora rimase sconvolta) il famoso locale del “putridarium” ovvero scolatoio cioè un luogo appositamente previsto dove i cadaveri delle monache venivano posti, seduti, in nicchie. Al centro della seduta un foro che serviva per il deflusso dei liquidi, raccolti in appositi vasi di argilla, in napoletano “cantarelle”, dal greco “cantharus”. Successivamente le ossa erano raccolte, pulite, esposte al sole per renderle bianche e, finalmente, sepolte negli ossari. Quindi doppia sepoltura a salma ormai essiccata. Il luogo veniva quotidianamente visitato dalle monache per riflettere sulla caducità della vita secondo il detto della Genesi (3,19) “Polvere sei e in polvere tornerai”.
Il significato della prima sepoltura nello scolatoio: il passaggio rituale dell’anima prima di salire nel Regno dei Cieli, era, cioè, una specie di Purgatorio. E la stessa scolatura dei liquidi indica la purificazione del corpo dalla carne, il corruttibile dell’esistenza umana, la liberazione finale prima di accedere in Paradiso. La prima sepoltura, insomma, è necessaria per espiare i peccati commessi durante la vita. Il corpo seduto nella nicchia ritrova il proprio contatto con se stesso, senza passioni o impulsi. Del resto la sedia è associata al significato di potere o anche di guida. A parte Ischia simile cultura è propria della cultura napoletana. Famose sono le catacombe di San Gaudioso complesso ipogeo sotto la Basilica di S. Maria della Sanità, ma anche le catacombe di san Gennaro o l’ossario delle Fontanelle, tutte in Napoli. Il termine dialettale “puozzi scolà” equivale a morire e quindi essere messo a scolare, ed è usato anche da noi; altro termine collegato “sciattamuorto”, ovverosia il becchino, ma con mansioni particolari, cioè era la persona che praticava fori nel cadavere posto nella nicchia, seduto o in posizione eretta, per facilitare la fuoriuscita dei liquidi ed affrettare l’essiccazione. Usanze queste che valicano i secoli, ma che sono arrivate sino a noi anche con le sole parole.
Altra esperienza, nelle vesti questa volta da storico, l’ ebbi a fine anni Ottanta allorchè su richiesta urgente del titolare di una parrocchia, mi recai in una chiesa del Basso Cilento, distante alcuni chilometri da Camerota. Durante lavori di ristrutturazione era comparso un vano ipogeo e il parroco mi poneva interrogativi. In quel caso si potevano osservare i risultati della cosiddetta doppia sepoltura in modo inequivocabile ed oggettivo. Questo grazie al fatto che il manufatto ben conservato delle nicchie/scolatoio era stato interrato per decenni e venuto alla luce per lavori alla struttura sovrastante, quindi intatto e ancora con scheletri ben conservati, deposti- accatastati in altro piccolo locale (altezza 80/85 cm circa) sottoposto al primo, accessibile tramite altra botola nel pavimento. La chiesa era quindi su tre livelli, quello superiore era il vero manufatto religioso frequentato dai fedeli per i riti, il sottoposto era la sepoltura a nicchie e ancora più giù l’ossario. Dalle scarpe ivi rinvenute si poteva desumere l’epoca, il ‘700. C’erano anche le bottigline chiuse e il relativo foglietto forse riportante il nome del de cuius (si era soliti fare così in tutti quei cimiteri con pochi spazi), ma non volli aprirle per non danneggiare lo scritto.
Ritornando alla “cappella” di san Vito, nel lontano 1996 non mi fu possibile osservare bene le nicchie per la presenza di rovi e soprattutto piante di ortiche che mi impedirono l’ingresso completo (non ero attrezzato) perché volevo osservare l’eventuale resto di sedute lapidee o lignee nelle sei nicchie e ancora osservare bene l’altarino centrale e i graffiti.
Da quanto sopra detto desumo che la cappella di san Vito non sia altro che uno scolatoio di pertinenza e/o servizio al Monastero Cappuccino di Camerota, collocato, infatti non lontano dallo stesso, tanto da evitare i fastidi degli effluvi cadaverici, ma vicino per visite e necessarie preghiere dei confratelli. L’unico dubbio potrebbe essere se la stessa cappella-sepoltura era utilizzata da altri, alludo alle famiglie notabili di Camerota. A mio avviso, per sciogliere questo dubbio basterà una ricerca cartacea all’uopo indirizzata e/o motivata ancorchè lunga.
Dott. Prof Angelo Gentile, Già tutor per i docenti di storia, ricercatore storico e pubblicista.