Il canto delle Sirene, la malia delle acque e la fantasticheria

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Il canto delle Sirene, la malia delle acque e la fantasticheria

di Giovanni Festa

Omero racconta che quando Ulisse si avvicinò all’isolotto fatale “imbiancato di ossa umane” (per Virgilio Sirenum scopuli, scogli delle sirene), il primo a rispondere al magnetismo del canto delle Sirene non fu l’uomo, ma il mare: la nave “prua azzurra”, che nel suo stesso epiteto incarna l’idea di un movimento illimitato e di un attraversamento continuo in un medium diafano e spumoso, all’improvviso dovette fermarsi, perché le onde si erano addormentate.

Il canto delle ammaliatrici appesantisce il movimento di quel lembo di mare (non si sa bene se fra Scilla e lo stretto di Messina, vicino alle coste della Sardegna o fra Capri e Sorrento) e trasforma la leggerezza dell’onda marina, specchio, per Baudelaire, dell’uomo libero, in acqua appesantita, carica di ombre e riflessi superficiali, dove è impossibile, se ci si affaccia dal bordo dell’imbarcazione, indovinare lo spettacolo molteplice della vita abissale. L’elemento marino vicino alle Sirene si ispessisce, si placa e si opacizza, diventando uno specchio scuro: “è mortale per l’anima convertirsi in acqua”, ammonisce Eraclito. Il prestigio delle Sirene è, quindi, innanzitutto idrico: l’acqua silenziosa ha smesso di trasportare come una corrente di sogno su un battello ebbro per divenire morte immobile, presagio che rimane dentro di noi come un brandello di lutto appeso al cuore.

È in questo momento di immobilità completa, da dentro l’occhio del ciclone, che Ulisse, all’improvviso, ascolta finalmente il canto tanto a lungo immaginato grazie ai racconti di Circe e che, sinuoso, gli giunge all’orecchio: lo immaginiamo ben legato all’albero maestro e circondato dai compagni che, resi sordi dai tappi di cera cercano, meccanici, di fare forza con i remi. Le sirene, con “suono di miele”, dicono allo sfidante delle Colonne d’Ercole che chi le ascolta riparte “conoscendo più cose”, perché questi “supposti animali marini” (come recita il dizionario sfogliato da Borges nel suo Libro degli esseri immaginari) “tutto sanno di quello che accade sulla terra nutrice”. Il canto ammaliante si rivela essere, allora, strumento di conoscenza: non è la malia della voce, ma la brama di apprendere che, secondo Cicerone, attirerebbe il navigante

Sconfitte dall’astuzia di Ulisse, queste misteriose creature ibride sembra siano morte, o almeno è così che suggerisce Virgilio nell’Eneide: invece del canto delle sirene, a risuonare sono i nudi scogli deserti percossi dalle onde.

Nelle Argonautiche, anche i mitici predoni guidati da Giasone di ritorno a casa con il vello d’oro rubato nella Colchide, si imbattono nelle terribili fanciulle canore, e stavolta è Orfeo a salvare la ciurma dall’incanto. Il cantore trace, che conoscerà le cavità degli inferi, intona una melodia così dolce che le stesse sirene rimangono stupite ad ascoltarlo e vengono per questo mutate in rocce. Nella mitologia greca, le sirene sono esseri alati con metà corpo di uccello, simili alle arpie, sorelle delle erinni (donne alate con chioma formata da serpenti guizzanti) e delle lamie (fanciulle con corpo di serpente); per Ovidio, nonostante il piumaggio, possiedono invece un bel “volto di vergine”. La sirena, come siamo abituati a immaginarla oggi, è probabilmente una derivazione della Derceto assira, dea delle forze fecondanti con coda di pesce, il cui mito giunge fino all’Europa del nord e alla penisola iberica, terra della sirenuca e della mujer pescado di Tirso de Molina.

Le sirene sono dunque mostri, demoni o ninfe?

Mostri? Cristoforo Colombo sembra ne avesse avvistate tre durante il viaggio verso le Americhe, con corpo di pesce e volto d’uomo; racconta Borges quello che fecero i cittadini di Haarlem con la fanciulla-pesce che incontrarono nei canali della città: da borghesi industriosi quali erano, le insegnarono perfino a tessere. Demoni? Nei bassorilievi funebri tardo-antichi sono entità intermedie che trasportano le anime nell’aldilà. Ninfe? I loro nomi suggerirebbero anche quest’ultima accezione: Aglaope, “dal bel viso”; Partenope, “di aspetto virginale”, che, morta, giunse fino a Napoli: Strabone, il grande geografo greco, ne ammirò la tomba e assistette ai giochi ginnici che si facevano in suo onore; o Ligeia, “dalla voce melodiosa”, nome che sarà poi quello della fanciulla risorta con “i capelli neri come ala di corvo” del racconto omonimo di Edgar Allan Poe.

Ne Le Mille e una Notte Abdullah scopre una fanciulla con il volto di luna, i capelli ondulati come le onde del mare e la coda di pesce; ne La Sirenetta di Andersen la fanciulla acquatica, a causa del tradimento del principe di cui è innamorata e per il quale aveva rinunciato alla sua forma marina, si trasforma prima in spuma del mare, come una Venere Anadiomene (ossia “nata dalla spuma”) al contrario e, poi, in figlia dell’aria.

Nel folklore germanico la sirena diventa ondina, creatura metà donna metà pesce, protettrice del fiume: all’acqua marina si sostituisce così la fonte di acqua dolce, metafora della nascita irresistibile e continua, e la sirena può così diventare personificazione di una “parola dell’acqua” e di un “mondo fluttuante”. Nel primo caso è la signora del linguaggio fluido, senza urti nè punteggiatura, che non conosce pause, come in Bachelard e nel Finnegan’s Wake di Joyce; nel secondo è il corpo dell’amata che, nel film L’Atalante di Jean Vigo, Jean Dasté vede fluttuare nelle oscure acque del canale grazie all’attività ipnagogica e fluttuante della coscienza che si apre alla fantasticheria e al sogno diurno.

Il fascino della donna-onda giunge così fino alla modernità. Nel racconto di Oscar Wilde Il pescatore e la sua anima un giovane incontra una sirena rimasta prigioniera nella sua rete, come la piccola trota di argento che si trasforma in donzella nel poema di Yeats: ha il corpo bianco come l’avorio, la coda di perla avvolta da alghe verdi, le orecchie come conchiglie e le sopracciglia argentate e indurite per i cristalli del sale. Wilde, con la precisione allucinata di un orafo rinascimentale, ci racconta perfino di come ogni singolo capello della magnifica creatura marina assomigliasse a “un filo d’ oro fino in una coppa di vetro”: per la sua amante acquatica il giovane arriverà ad amputarsi della sua ombra (che è “il corpo dell’anima e non il riflesso del corpo”) con un coltello, volgendo le spalle al sole.

Nel Tannhäuser di Wagner allietano la vita del poeta e di Venere nel monte incantato della dea, e Sirènes è il titolo del terzo Notturno di Debussy (ispirato a una serie di quadri del pittore post-impressionista James Whistler), che ricrea la suggestione delle onde argentate sotto i raggi della luna.

Per Apollinaire, sirene annoiate, di notte, riempiono il mare di grida ostili, mentre Louis Aragon crede di vederne una vera dietro una vetrina del Passage de l’Opéra, galleria coperta di vetro che non a caso gli sembra simile ad un acquario; nell’Ulisse di Joyce sono le cameriere della mescita e in Pound appaiono, come un lampo di vetro, già nel primo dei suoi Cantos.

Per Kafka, infine, le sirene, al passaggio di Ulisse, si dimenticarono (o non vollero) cantare, contrapponendo qualcosa che è ancora più pericoloso del canto, ossia il loro silenzio: l’astuto navigante, che si era posto anch’egli la cera nelle orecchie, credendosi così al sicuro, accarezzò con lo sguardo il movimento delle loro gole, vide il loro respiro profondo incamerarsi nel petto ansante e brillante di spuma, ne fissò gli occhi pieni di lacrime e le bocche socchiuse credendo che stessero formando le melodie non udite e risuonanti intorno a lui e non percependo, così, la sfida del loro silenzio. O forse, continua lo scrittore de Il Processo, l’eroe dei molteplici inganni si era davvero accorto che le sirene tacevano, e non ha fatto altro che opporre, sia a loro che agli dei, “come se fosse uno scudo”, la finzione che poi sarà narrata da Omero.

Nota biografica –  è storico dell’arte, critico cinematografico e scrittore. Dottore di ricerca presso l’Universitá della Calabria, ha conseguito un postdottorato in teoria dell’immagine presso l’Universitá di La Plata (Argentina), dove è professore a contratto. É docente di storia e critica del cinema presso l’Instituto Botticelli, Artes y Humanidades (Messico) e storico dell’arte presso la fondazione “Crea” (Italia). Scrive per le riviste di cinema Filmcritica, Uzak.it, Fata Morgana, per la rivista messicana di filosofia Reflexiones Marginales, e quella argentina Arkadin. Fra le sue pubblicazioni, il libro di iconologia Il viaggio di Cavaliere e donzella. Itinerari labirintici di un archetipo figurativo e quello di teoria dell’immagine Il montaggio sacrificale delle immagini: Ejzenstejn, Warburg, Bataille (Aracne ed.), il catalogo d’arte La Natura svelata. Armonia e coflitti nei paesaggi dell’arte (Ippogrifo ed.) e il romanzo Hostage City (Eracle ed.).

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