La crisi dell’Italia fra terrorismo e solidarietà nazionale

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La crisi dell’Italia fra terrorismo e solidarietà nazionale

La solidarietà fra i 2 maggiori partiti, PCI e DC, consente alla repubblica democratica italiana di resistere alla pericolosa tensione creata dall’assassinio di Moro e della sua scorta, compiuto dalle Brigate Rosse (marzo-maggio 1978)

Il terrorismo e la sesta legislatura

In un quadro politico grandemente turbato da agitazioni sindacali e da contestazioni sessantottine, il 12 dicembre 1969, nella Banca dell’Agricoltura, di Milano (Piazza Fontana), esplode una bomba, che fa strage di 16 persone e ne ferisce oltre 86, aggiungendo una spirale di violenza, che dà origine tuttavia – malgrado i tentativi di depistaggio immantinente attivati – al “terrorismo nero” (fascista), che si esprimerà in altri analoghi crimini. 

A quello nero, si annoda presto il terrorismo che si dichiara “rosso e proletario”, ma che matura in contesti universitari e piccolo-borghesi, ottenendo i medesimi risultati di quello nero, ossia disordine e insicurezza, da cui può sorgere solamente una involuzione civile e politica. La data di nascita del terrorismo rosso è identificata nell’incendio di alcuni autotreni, presso gli stabilimenti milanesi della Pirelli, il 25 gennaio 1971, seguito dalla diffusione di volantini, che ne attribuivano la paternità alle Brigate Rosse. 

Incapace di risolvere questi problemi, il centro-sinistra sopravvive sempre più a stento, sino agli inizi del 1972, quando i socialisti escono dal governo e diviene impossibile formare una nuova maggioranza governativa. Il capo dello Stato Leone deve, dunque, sciogliere anticipatamente le Camere, e indice nuove elezioni, per il 7 maggio 1972. Però, le nuove elezioni non cambiano i rapporti di forza tra i partiti, talché, anche nel corso della sesta legislatura (1972-1976), riesce difficile comporre maggioranze governative solide; e, il 20 giugno 1976, si deve, ancora una volta, ricorrere ad elezioni politiche anticipate, in cui il Partito Comunista compie un balzo in avanti di significative proporzioni – dal 27,2% dei voti al 34,4% – mentre la Democrazia Cristiana mantiene le sue considerevoli posizioni – 38,7% – in termini di voti.

La “solidarietà nazionale”

Tra le correnti più aperte della DC si fa allora strada l’idea che la grave situazione del Paese possa essere efficacemente fronteggiata sol che si instauri tra democristiani e comunisti – che complessivamente riflettono quasi i 3/4 dell’elettorato – un clima di comprensione reciproca e di collaborazione. In questa ottica di solidarietà nazionale, il democristiano Andreotti riesce a costituire un governo che può contare, se non sull’appoggio, quantomeno sull’astensione dei comunisti, in agosto 1976. Più tardi, i comunisti, dopo aver partecipato, con gli altri partiti dell’arco costituzionale (cioè DC, PSI, PSDI, PRI, PLI), alla elaborazione del programma di governo, si impegnano a sostenerlo con il loro voto. E la solidarietà tra i 2 maggiori partiti permette, peraltro, alla repubblica democratica italiana di resistere alla temibile tensione generata dall’assassinio di Moro e della sua scorta, commesso dalle Brigate Rosse. La settima legislatura (1976-1979) dura soltanto 3 anni, durante la quale è approvata la legge che, a determinate condizioni, consente alle donne l’interruzione della gravidanza, purché praticata entro 90 giorni dal concepimento e, in ipotesi eccezionali, anche oltre tale limite. Entrata in vigore nel giugno 1978, è sottoposta a referendum abrogativo, promosso da ambienti cattolici, nel maggio 1981, ma la proposta di abrogazione è respinta dalla maggioranza degli elettori. 

L’anti-Stato

Agli inizi del 1978, l’attività delle BR attinge l’acme della fase denominata “strategia di annientamento”. Il 16 marzo – giorno in cui Andreotti avrebbe dovuto presentare alla Camera un nuovo ministero, forte dell’appoggio esterno dei comunisti, così, immessi nell’area di governo – alle 9.15 del mattino, uccisi gli uomini della scorta, un commando di brigatisti sequestra Moro. I 54 giorni successivi, scanditi dai comunicati delle BR e dalle lettere del leader democristiano, che esortano governo e partiti a trattare per la sua liberazione, segnano, nel profondo, la vita politica italiana, schiudendo aspri contrasti tra i fautori della “fermezza” – comunisti in testa – contrari a che lo Stato conceda il riconoscimento politico ai terroristi e ceda alle loro richieste, e i “trattativisti” – PSI capofila – persuasi che il primo obbligo dello Stato sia agire per la salvezza della vita di Moro; un terzo “partito”, in rapida crescita, è quello di una fascia tanto silenziosa, quanto larga della popolazione, particolarmente giovanile, schieratasi sulla posizione “né con lo Stato, né con le BR”. La linea della “fermezza”, mediante un itinerario politico non scevro di ambiguità e di incongruenze, invale, e Moro viene ammazzato. Siffatta decisione determina rilevanti dissensi entro le stesse BR, facendo terra bruciata intorno al gruppo, predisponendone lo smantellamento. Quest’ultimo avviene nell’ambito dell’offensiva anti-terroristica, coordinata dal generale dei carabinieri Dalla Chiesa, che può giovarsi della approvazione di una legge, la quale, in cambio di una notevole riduzione di pena, invoglia terroristi “pentiti” a collaborare con la giustizia.  

L’Italia in crisi

L’insuccesso elettorale, che accomuna, alle elezioni, per il rinnovo delle Camere, del 19 maggio 1968, democristiani e socialisti, suonando a giudizio negativo sul complesso della esperienza del centro-sinistra, dà agio al presidente del Consiglio Moro di enunciare una lucida analisi del delicato passaggio, che stava vivendo il sistema italiano. La quinta legislatura è interrotta anticipatamente, nel febbraio 1972, per la impossibilità di costruire governi sufficientemente stabili. 

Nei quattro anni della quinta legislatura (1968-1972), nel corso dei quali il centro-sinistra si va sfasciando, l’Italia è percorsa da moti e da inquietudini, che sovente non trovano nelle istituzioni politiche idoneo riscontro. Dal 1968, ha corso una tumultuosa agitazione giovanile studentesca, che pregiudica pesantemente la resa dello studio nelle università e nelle scuole secondarie superiori, e ad essa sia lo Stato, sia i docenti non sanno opporre rimedi validi. Nel c.d. autunno caldo, del 1969, le dure lotte dei lavoratori scavalcano ampiamente le abituali modalità di azione di sindacati e talora i limiti stessi della legalità e del diritto. 

Nel maggio 1970, viene promulgato il c.d. Statuto dei lavoratori o, più esattamente, la legge n. 300, che permette ai lavoratori di manifestare le proprie opinioni politiche e sindacali sul luogo di lavoro, riconosce loro il diritto di tenere assemblee in fabbrica, vieta alle aziende di controllare se i lavoratori assenti sono ammalati, le obbliga a mettere a disposizione dei sindacati appositi luoghi per l’affissione di materiale di propaganda e di informazione, prevede una serie di garanzie a difesa della “libertà e dignità del lavoratore”. Ma detto “Statuto” non è sufficiente a far cessare la conflittualità permanente – ovverosia il continuo disaccordo fra dipendenti e dirigenti, mantenuto vivo in ogni giornata e a tutti i livelli – nelle fabbriche e nelle aziende, molto dannosa per lo sviluppo della produzione. 

Durante la quinta legislatura è, inoltre, varata la legge che accoglie il divorzio nel diritto italiano, approvata, dal Senato, nell’ottobre del ’70, e dalla Camera, nel successivo dicembre. Nel 1974, la legge viene sottoposta a referendum abrogativo, avanzato da ambienti cattolici, però, la maggioranza degli elettori si dichiara contraria alla abrogazione, e la legge resta in vigore. 

Moro e la “terza fase” della democrazia italiana

Le crescenti contestazioni studentesca e operaia certificano l’esistenza di attese che richiedono una risposta vigorosa e subitanea, senza cui si sarebbe accentuato il già evidente processo di scollamento fra società politica e società civile; quest’ultima appare sempre meno disposta a delegare alla prima la tutela e la gestione dell’interesse generale. Rebus sic stantibus, la classe politica si sarebbe dimostrata incapace di esperire quel “ripensamento” della propria funzione, nonché le riforme istituzionali e strutturali individuate dallo statista pugliese, quale unica via utile a dare uno sbocco positivo ai moti sociali dei primi anni Settanta. 

Gli esiti delle elezioni amministrative del 1975, col “sorpasso” del PCI sulla DC sfiorato di un soffio, confermano in Moro il convincimento della necessità di aprire nella vicenda politica del Paese una terza fase, dopo quella del centrismo e del centro-sinistra, che consenta di affrontarne la crisi in atto, morale e sociale, oltre che economica e politica. A fronte del tendenziale espandersi dell’area della eversione e dell’anti-democrazia così alla destra, come alla sinistra delle tradizionali forze di governo, diveniva essenziale e prioritario “acquisire” completamente i comunisti italiani alla democrazia, incrementando, così, in maniera decisiva, la piattaforma di consenso dello Stato democratico e di diritto.   

La “strategia dell’attenzione”

La conseguenziale “strategia dell’attenzione” nei confronti del PCI, auspicata da Moro, viene da lui tracciata nell’ultimo discorso, svolto ai gruppi parlamentari democristiani, prima della morte, il 28 febbraio 1978. Nel ribadire il carattere “alternativo” delle rispettive proposte generali e nel giudicare, comunque, non immediatamente realizzabile l’incontro sul piano di governo dei 2 partiti maggiori, il presidente della DC prospetta piuttosto la esigenza di una loro collaborazione per la soluzione dei problemi più impellenti del Paese, primo fra tutti, la nuova legittimazione del potere politico dinanzi ai pericoli convergenti della violenza terroristica e della crisi economica, in attesa che la piena “conversione” democratica dei comunisti agevolasse l’avvio, pure in Italia, di una normale dinamica di alternanza al potere, da parte di forze indubitabilmente impegnate all’osservanza dei principi e delle pratiche democratiche. Il 16 marzo 1978, i terroristi delle BR si sarebbero assunti la responsabilità di stroncare, col barbaro rapimento di Moro, la maturazione del progetto politico da lui appena abbozzato.

Gli anni di piombo

Anni di piombo, sono quelli fra il 1973 e il 1978, a causa del passaggio dalla “fantasia al potere” ai cubetti di porfido, alle spranghe e alle chiavi inglesi, alle P38, alla “geometrica potenza di fuoco” dei commandos brigatisti: “Si tratta di crimini contro l’umanità … per cui la nostra riprovazione è assoluta e unanime … la violenza genera violenza, l’odio genera odio, e l’una e l’altro umiliano e avviliscono la persona umana”, dice Giovanni Paolo II. Anni di piombo, dunque, e anni plumbei, con vie e piazze dei centri urbani svuotate al calar delle ombre serotine, luoghi perpetuamente off limits, per gli esponenti dell’uno o dell’altro schieramento, le “ronde metropolitane”, i costanti controlli delle forze di sicurezza. Ma non solo per questo: in nome di rivoluzioni per cui mancava qualunque requisito, mirando a “colpire il cuore dello Stato”, i terroristi forniscono su un piatto di argento ad alcune forze sociali e politiche il destro per criminalizzare indiscriminatamente ogni genere di dissenso e delegittimare ogni forma di opposizione, ivi compresi quelli diffusi specialmente nella base giovanile, insofferente sì, ma non violenta, creativa, propositiva, motivata. Né può tralasciarsi la conduzione del caso Moro, da parte degli assetti istituzionali e partitici.  

Ma, lungi dall’inoltrarsi nella discussione in ordine al loro tatticismo – indirizzo della fermezza o quello della trattativa – cruciale si rivela, altresì, sul punto, la circostanza che l’anzidetta colpevolizzazione di qualsiasi manifestazione di critica, dà luogo, oltre che al giusto ripudio della follia terrorista, ad una piazza giovanile lasciata sguarnita di referenti istituzionali, alla mercé di “cattivi maitres à penser”, esperti nel giocare alla rivoluzione dalle cattedre o dalle colonne dei giornali, senza contribuire a offrire una soluzione alla “quadratura circuli”, rappresentata dalla equazione insoluta di chi non si riconosce “né con (quello) Stato, né con le BR”. Il dibattito politico risulta nullificato dall’imporsi di una logica “militarizzata”, e alla parte “impegnata” di una intera generazione – potenziale classe dirigente alternativa del domani – altro non resta che omologarsi o ritirarsi. La massima parte si ritira, dileguandosi negli opposti (ma politicamente ugualmente ghettizzati e ghettizzandi) meandri del riflusso nel privato o del volontariato. Ed è la fine della politica “vissuta”, l’estinzione del “movimentismo”, e la riappropriazione della politica ad opera dei partiti e degli apparati istituzionali.

Nel conseguente vuoto di partecipazione, nella impossibilità di esplicazione di qualsivoglia tipo di controllo e di vigilanza del potere costituito, si sarebbe, pertanto, impiantato, sarebbe cresciuto e avrebbe prolificato il cancro della corruzione, l’intreccio fra istituzioni, classe politica ed interessi privati.

Il piombo avvelena gli organismi: e di quegli anni, ancor oggi, si soffre.     

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