Legge Spazzacorrotti e i reati contro la Pubblica amministrazione

| di
Legge Spazzacorrotti e i reati contro la Pubblica amministrazione

La legge 9 gennaio 2019, n. 3 (conosciuta anche come legge anticorruzione) è una norma della Repubblica Italiana in tema di contrasto alla corruzione, emanata durante il governo Conte I, su iniziativa dell’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede.

La legge ha apportato modifiche al codice penale e al codice di procedura penale con l’obiettivo di potenziare l’attività di prevenzione, accertamento e repressione dei delitti contro la pubblica amministrazione italiana. È entrata in vigore il 31 gennaio 2019, dopo essere stata approvata in via definitiva dal Senato il 18 dicembre 2018 con 304 voti favorevoli, 106 contrari, 19 astenuti. 

In merito alle modifiche apportate ai reati commessi contro la Pubblica Amministrazione uno specifico riferimento è previsto per la nuova figura di traffico di influenze illecite, con due novità di carattere giuridico assolutamente rilevanti:

  1. il tornaconto che caratterizza l’agire del soggetto che si propone di fare da tramite tra il privato ed il pubblico ufficiale perde l’originaria connotazione di tipo strettamente economico (l’art. 346 bis comma 1 ante-riforma fa riferimento all’ottenimento od alla promessa di denaro o di altro «vantaggio patrimoniale»). Ad integrare la nuova ipotesi “allargata” di delitto sarà l’ottenimento (o la promessa) di una qualsiasi «utilità» per il soggetto intermediario; quindi, teoricamente, anche il mero appagamento psicologico potrebbe essere ritenuto utilità ai sensi dell’art. 346 bis c.p.;
  2. la condotta rilevante per la disposizione in parola non avrà più ad oggetto solamente quei fatti che potrebbero essere ricondotti al paradigma della c.d. corruzione propria (ossia, atti contrari ai doveri derivanti dalla pubblica funzione o dal pubblico servizio esercitati; ritardo/omissione di atti che sarebbero dovuti da parte del pubblico agente), ovvero al modello della c.d. corruzione in atti giudiziari, bensì tutti quei comportamenti che – astrattamente – potrebbero rientrare nell’ipotesi generale di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.).

La combinazione dei due interventi or ora citati, invero, suscita alcune perplessità. Il fatto di aver allargato le maglie del traffico di influenze illecite potenzialmente a tutte le ipotesi prodromiche rispetto anche alla corruzione di tipo improprio, unitamente al fatto che il vantaggio perseguito dal soggetto intermediario non necessariamente dovrà avere natura patrimoniale (ben potendo concretarsi in un’utilità di tipo squisitamente morale o psicologico), potrebbe invero dare adito ad interpretazioni protese a ricomprendere nell’alveo applicativo della fattispecie de qua condotte che, di per sé, non sembrano poter sortire effetti distorsivi rispetto all’azione od alla formazione (e manifestazione) della volontà della P.A. Il pensiero va, ad esempio, al fenomeno delle c.d. raccomandazioni “innocue”, ossia a quel tipo di esortazioni effettuate senza una contropartita venale e che non posseggono alcuna capacità condizionante rispetto al processo decisionale del pubblico agente.

Altra novità importante è l’introduzione di una inedita causa di non punibilità per chi, avendo commesso uno dei fatti di cui agli artt. 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 bis[19], 353, 353 bis o 354 c.p., «prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili» (nuovo art. 323 ter c.p.

Detta nuova causa di non punibilità, che – per certi versi – ricorda la figura del c.d. pentito nei reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, è infatti da considerare “strumento di accertamento” del reato, in quanto affida il disvelamento e la repressione del patto corruttivo alla delazione del correo, il quale, stimolato dall’allettante prospettiva di beneficiare di una totale esenzione da pena, entro i primi quattro mesi dal perfezionamento dell’illecito potrà decidere di autodenunciarsi, denunciando al contempo gli altri concorrenti nel reato (pubblici agenti o privati, a seconda della parte del pactum sceleris incarnata dal delatore) e – eventualmente – anche gli autori di altri reati collegati al proprio.

La disposizione non chiarisce, invero, se la notizia dell’esistenza di un’indagine a proprio carico, che è prevista quale condizione negativa per l’accesso al beneficio de quo, debba essere interpretata come conoscenza di tipo ufficiale, ovvero possa considerarsi sufficiente – sempre al fine di escludere l’applicazione della causa di non punibilità in parola – anche la mera conoscenza informale dell’avvenuta iscrizione del proprio nominativo nel registro delle notizie di reato.

Forti dubbi su questo nuovo “mezzo di contrasto” alla corruzione è soprattutto l’alta possibilità che esso venga strumentalizzato da parte degli stessi corrotti o corruttori, al solo fine di far “inchiodare” l’altra parte dell’accordo corruttivo; oppure allo scopo di ottenere dei vantaggi indebiti rispetto ad altri eventuali competitors nella procedura di aggiudicazione di appalti od erogazioni pubbliche. Il rischio è che detto strumento di “riabilitazione” del proprio comportamento illecito sia sfruttato quale vera e propria opzione strategica (alla stregua di un preordinato “piano B”) finalizzata a minimizzare le perdite nel caso in cui, nell’ambito di un sistema di bustarelle corrisposte per ottenere un appalto od un altro beneficio di fonte pubblica, coloro che andranno poi ad offrendosi all’Autorità giudiziaria quali potenziali delatori siano rimasti insoddisfatti rispetto all’esito che ha avuto un determinato procedimento amministrativo.

Altra importante novità della legge spazza corrotti, in merito ai delitti contro la P.A., è che ha inserito molte delle predette fattispecie criminose nell’elenco dei reati c.d. ostativi di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario; più specificatamente, chi è stato condannato per i reati contro la P.A. elencati dalla legge non potrà richiedere le misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna.

La Corte Costituzionale, con la sentenza del 26 febbraio 2020, n. 32, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lett. b), della legge Spazzacorrotti, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte dall’art. 4-bis, comma 1, della l. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione di misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 3 del 2019.

La Consulta ha preso atto che, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione venivano applicate retroattivamente e, pertanto, ha addotto che l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione.

La Consulta quindi non ha dichiarato incostituzionale la legge Spazzacorrotti, in quanto si è pronunciata unicamente sulla sua applicazione in senso retroattivo. Ha chiarito che il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai condannati per gravi reati contro la pubblica amministrazione deve valere per i reati commessi in un periodo successivo all’approvazione della legge Spazzacorrotti.

Dell’autore leggi anche: I reati informatici: tutto quello che c’è da sapere

Consigliati per te

©Riproduzione riservata