Dal Cilento in Kenya per far nascere il futuro, l’ostetrica Sara Pisu cura i bimbi malati di Aids
| di Francesco ChiricoRicercare e conoscere i ‘cilentani nel mondo’ è un’esperienza stimolante. Storie, percorsi, occasioni differenti che raccontano di una terra ricca di risorse, di menti. Il Cilento non è morto. Il Cilento è vivo e la prova ne sono questi ragazzi.
Originaria di Casal Velino, dopo la laurea in Ostetricia ha deciso di dare una svolta alla propria vita. Sara Pisu ora presta servizio di volontariato in Kenya nel villaggio di Karungu. Lavora in un ospedale missionario camilliano, il St Camillus Missoni Hospital, in qualità di ostetrica e infermiera. Dopo il turno ospedaliero passa del tempo nella casa famiglia ‘Dala Kiye’, sempre un progetto della missione che ospita 60 orfani malati di Aids. Il giornale del Cilento l’ha contattata, ecco la sua storia.
Dal Cilento al Kenya, come ci sei arrivata e da dove è nato il tuo impegno nel volontariato?
È iniziato tutto verso gennaio dell’anno scorso, quando stavo frequentando l’ultimo anno di corso di ostetricia presso l’università Federico II di Napoli ed era arrivato il momento di scegliere l’argomento della mia tesi di laurea. Io ero sempre stata affascinata dall’Africa così chiesi il permesso di allontanarmi per un mese dal tirocinio universitario per andare a fare volontariato come ostetrica in un ospedale missionario del Kenya dove avrei anche effettuato una ricerca sul campo per il mio lavoro, oltre che a lavorare come volontaria. Di questa missione ne sono venuta a conoscenza tramite un chirurgo amico di famiglia, il quale aveva già prestato servizio in questa struttura come volontario diversi anni prima e che mi ha messo in contatto con Padre Emilio, il padre camilliano di origine veneta che è il responsabile di questa missione. Dopo allora sono tornata qui a Karungu altre 2 volte, ed ogni volta sono sempre più innamorata di questo posto.
Ricordi come è stato il tuo primo impatto con il Kenya? Cosa hai trovato in quella terra al tuo arrivo?
Il primo impatto è stato sicuramente emozionante. Dopo tutto il tempo in cui avevo sognato di partire per conoscere l ‘Africa, il mio sogno si stava finalmente avverando. Ricordo di essere partita piena di ideali e di grande entusiasmo: stavo per conoscere l’Africa nel ruolo che avevo scelto di rivestire per il resto della mia vita, quello dell’ostetrica. Pensavo a quante sarebbero state le persone che avrei aiutato e supportato, a tutto il lavoro che mi aspettava e che avrei portato avanti facendo sempre del mio meglio. Poi quando sono venuta realmente a contatto con la missione e con cosa significava darsi da fare in questo contesto sono stata come sopraffatta. Ricordo che violentissimo è stato l’impatto con la realtà locale, con le tante situazioni difficili e i relativi modi di gestirle, totalmente differenti da quelli previsti dai nostri usi e costumi. E allora prima c’è un senso di smarrimento, poi tanta rabbia perché si crede che le cose non vengano fatte nel modo giusto, solo perché Non si rispettano le nostre stesse priorità, allora poi si cerca di resistere e non farsi buttare giù dalle differenze, e se ci si riesce (cosa che garantisco è tutt’altro che facile), allora si cominciano a comprendere tanti meccanismi che prima non erano chiari. Una volta che sono riuscita ad interfacciarmi alle varie problematiche che mi si presentavano d’avanti cercando di mettere da parte il mio etnocentrismo, ma volendo accettare come prioritarie le dinamiche socio-culturali di un contesto completamente differente, tante situazioni, inizialmente incomprensibili, sono risultate più chiare e decisamente accettabili.
Sicuramente in questa terra ho trovato moltissime difficoltà, dalla lingua alla diversa cultura, ma una volta superate mi hanno fatto anche comprendere il perché della scelta di partire per fare volontariato in Africa: si parte sempre credendo di andare a salvare qualcuno, ma poi alla fine è sempre l’Africa che salva noi. Siamo noi che abbiamo bisogno di lei, mai il contrario.
L’impegno che hai deciso di assumere ti porta a stare molto tempo lontano dal Cilento, cosa ti manca di più della tua terra?
Sicuramente mi capita spesso di provare nostalgia per la mia terra, è il posto dove ho lasciato le mie radici ed una parte di me non andrà mai via da lì. Specialmente provo nostalgia per la mia famiglia e i miei amici. Mi manca non poter condividere con loro le mie esperienze, le mie insicurezze e le mie paure. Mi manca spesso la quotidianità della mia famiglia, le chiacchierate con le mie sorelle o con il mio fidanzato. Ogni nostalgia rimane sempre, non va mai via, ma riesco ad accettarla perché sento che sto percorrendo la via giusta, che sto vivendo una vita fedele a me stessa.
In Africa aiuti le madri a partorire e i bambini malati di Aids, raccontaci della tua missione. Cosa ti spinge ad affrontare le difficoltà che tutti i giorni incontri?
A questo ho forse già risposto nella prima domanda. Sarebbe bello dire che lo faccio per puro è semplice altruismo, per il semplice sacrificare la mia vita in funzione dei meno fortunati, ma non è così, o meglio Non solo. È che tutto questo mi fa sentire bene. Lavoro con delle belle persone e i sorrisi delle madri che aiuto a partorire, dei miei pazienti che non si dimenticano mai di ringraziarmi con sincerità, di tutti gli orfani del ‘Dala Kiye’ che rappresentano un piccolo miracolo in questa società, mi ricordano del bene del mondo, il perché ho scelto di fare il mio lavoro e perché lo faccio qui. Sicuramente il fatto che l’Italia non offre possibilità di lavoro è un’ulteriore spinta per me, ma non nego che provo puro e semplice piacere nell’affrontare ogni singolo giorno qui, nel sapere di aver contribuito a qualcosa di buono o di averci almeno provato, perché sono consapevole che ogni piccolo lieto fine In questa parte di mondo è di sicuro un grande miracolo e una gloriosa vittoria.
Si può dire che questa esperienza ti sta cambiando la vita? Cosa ti ha insegnato il Kenya?
Più che la mia vita sta cambiando me, perché si sa che ogni scombussolamento interiore porta a una distruzione o a una crescita. Sicuramente questa è stata per me un’esperienza fortemente scombussolante ma altrettanto costruttiva e di certo non è così semplice raccontare quello che mi sta insegnando, né tanto meno riuscire a trasmetterlo agli altri. Sono sensazioni e consapevolezze che non si possono spiegare né comprendere se non si vive questa esperienza.
Di sicuro tra le cose che il Kenya e il ‘Life-style’ africano mi hanno insegnato c’è il rispetto per le diversità e le credenze culturali altrui, che nella cultura africana hanno un ruolo centralissimo perfino nel contesto del sistema di cura o delle campagne di sensibilizzazione riguardo ad alcune problematiche sociali importanti. Nessuna azione o intervento prescinde mai dalla visione olistica dell’individuo, della sua cultura e della società in cui vive. Tutto ciò è sicuramente diverso dall’approccio della società occidentale, in cui sempre ci vengono imposti dei modelli rigidi a cui fare riferimento in qualsiasi contesto, senza tener conto di quali siano le credenze individuali, ma quasi pretendendo che siano gli individui ad adattarsi al modello imposto, a quel modo di agire e di pensare, altrimenti si rischia di configurarsi come un difetto sociale. In Africa niente si da per scontato da questo punto di vista, ogni differenza, per quanto assurda o ridicola possa apparire, gode di piena dignità socio-culturale. Ecco che diventa importante saper ascoltare, saper essere in grado di “mettersi nei panni altrui”, essere degli individui empatici, caratteristica che di certo dovrebbe essere innata in noi per permetterci di comprendere gli altri, ma non è detto che non la si possa acquisire con il tempo e l’esperienza.
La tua è stata una scelta coraggiosa. Cosa consigli ai giovani cilentani? Restare per cambiare le cose nella propria terra o andare lontano per realizzare i propri sogni?
La nostra è una terra stupenda quanto dormiente. Piena di bellezze quanto di amare delusioni. Non consiglierei mai ai miei conterranei di fuggire via e dimenticare il Cilento, poiché si sa che i giovani sono il futuro. È anche vero però che assicurarsi un futuro diventa sempre più difficile per i figli della mia generazione, ci ritroviamo in una terra che chiede tanti sacrifici e quasi mai ti ripaga equamente, ecco perché spesso restare significa farsi inghiottire da un sistema malato, diventandone parte, configurandosi con esso.
Quello che mi sento di consigliare è di viaggiare tanto, fare esperienze formative, per poi tornare e portare nella nostra terra lo stesso cambiamento e la stessa evoluzione che è avvenuta dentro di noi.
Progetti futuri?
Purtroppo le difficoltà evidenti che ci sono nel trovare lavoro in seguito alla laurea permettono poco di fare progetti, più che altro si aspetta un cambiamento, un segno che ti indichi la giusta via da percorrere. Sicuramente so che farò il lavoro che ho scelto: sarò un’ostetrica e lo farò nel migliore dei modi, secondo le mie possibilità.
Se c’è un progetto, o meglio un sogno, che spero un giorno di poter realizzare è quello di lavorare come ostetrica in una grande Ong, come Emergency o Medici senza frontiere. Nel frattempo cercherò di percorrere la mia strada rimanendo sempre fedele alle mie inclinazioni, senza farmi arrestare dalle ansie e i doveri che la società ci impone.
Info utili: per aiutare la missione di cui fa parte Sara di seguito il codice Iban
Fondazione PRO.SA ONLUS ONG Banca Popolare di Milano Iban IT 90 F 05584 01626 000 0000 18500 oppure Unicredit IT 68 i 02008 01600000102346939
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