Capo Palinuro e Molpa, brevi cenni storici

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Capo Palinuro e Molpa, brevi cenni storici

di Angelo Gentile

La storia della nostra terra, terra posta al centro del Mediterraneo, del Mar Tirreno o Infero, ricorda la necessità antica del popolo di premunirsi contro altri popoli che arrivavano dal mare, di qui la esigenza di costruire difese costiere e non solo. Le nostre coste, infatti rappresentano DA SEMPRE un confine sia per partire verso altre terre e/o popoli, sia per arrivare da altre terre da parte di popoli diversi. In questo 2° caso nel corso dei secoli si sono eretti varie forme di fortezze-torri-castelli-case fortificate per impedire a genti ostili di approdare, depredare, distruggere. Non è stato sempre così, però, in epoca antica quando gli uomini erano pochi e da poco avevano scoperto la navigazione lungo le coste, gli approdi naturali servivano soprattutto per scambiare merci e produzioni e con queste lo scambio di idee/invenzioni che hanno fatto crescere meglio le scarse popolazioni, arricchendole. In epoche successive i confini mari/coste sono divenute zone di scontri per la supremazia-conquista. Chi viaggia via mare cerca approdi naturali e zone con fiumi che diventano le vie naturali e obbligate per arrivare all’entroterra abitato perché gli indigeni preferivano quest’ultimo, cioè l’interno e le colline alte per abitati più sicuri. Le zone costiere erano quasi del tutto spopolate e lo saranno per secoli fino al 1700/800.  Il promontorio di Palinuro in effetti è costituito da tre punte: una prima punta dette ora delle Quaglie, una seconda chiamata Frontone e una terza punta della Molpa, in un’estensione da occidente ad oriente.   

Il Capo Palinuro/Spartivento non poteva sfuggire all’attenzione di chi passava sia via mare che via terra, troppo imponente, proteso nel mare, alto 200 metri, scoglioso e con radi naturali. In più due fiumi, il Lambro (riportato nei testi antichi anche Melfi o Rubicante) e il Mingardo (Menicardo) completavano l’interesse di chi passava, anche solo per rifornirsi di acqua.   

Il territorio è, infatti, ricco di testimonianze non recenti, ovvero dal Preistorico. Ritrovamenti che abbracciano uno iato che va dal (Musteriano) Paleolitico Medio al Paleolitico Superiore (Epigravettiano): industria del musteriano formata da oggetti in quarzite, selce e diaspro da 300 mila a 30 mila anni fa. Grotte Ciavole, Visco, dune fossili a ovest di Palinuro. Nelle dune di Caprioli e Capo Palinuro sono stati rinvenuti grattatoi e raschiatoi con età tra 187.000 e 40.000 anni fa. Nella grotta Ciavole punte in selce e grattatoio da 130.000 a 40.000.      

La Grotta Visco ha restituito punte a dorso, con ritocco, grattatoio, troncatura, lame a dorso. La Cala delle Ossa, oggetti in selce e diaspro, grattatoi frontali e circolari, lama a dorso, punta a dorso con ritocco unilaterale, industria litica con età tra 40.000 e 10.000 anni fa. Quest’ultima utilizzata dall’uomo preistorico sia per riparo e per lavoro che per abitazione stabile. Si ricorda che i siti del Paleolitico in Italia sono circa 300.  Questa grotta è stata ritenuta, erroneamente, per anni luogo di sepoltura umana di marinai romani morti in naufragi; oggi si sa che sono ossa di animali cacciati dall’uomo preistorico che stanziava in zona: si ricorda che la regressione del mare dovuta all’ ultima glaciazione produsse vaste pianure oggi solo immaginabili, attraversate dagli uomini e da tanti animali di specie oggi presenti ad altre latitudini (es ippopotamo, leone)  

A Tempa della Guardia, a metà del VI secolo a. C. c’era un insediamento con circa 40 anni di vita, le case sono a base di pietra e l’alzato in legno e paglia, circondate da cinta muraria in blocchi.  Qui fu rinvenuto uno statere incuso d’argento databile 530-520 A C con la scritta PAL- MOL e l’effige di un cinghiale. Alcuni storici hanno visto un duplice significato: il cinghiale riferiva all’agricoltura e la scritta Pal-Mol ai commerci della Molpa. In vero, sembrerebbe che, come altre testimonianze del periodo, si faccia riferimento alla vita politica-commerciale della città stato e l’emblema del cinghiale un riferimento alla primavera sacra (ver sacrum) dell’età del ferro e quindi all’animale preso come riferimento per la fondazione della nuova città/colonia dei giovani destinati a ciò, una specie di voto espresso dalla città madre in occasioni diverse come l’ affollamento o calamità naturali o per scongiurare una situazione di pericolo quale una guerra particolarmente funesta per le sorti del paese.

Palinuro è nome greco il cui significato è “tempesta, vento che gira”, riferendosi probabilmente alla situazione climatica particolare a Capo Palinuro/Spartivento. I geografi antichi (Strabone, Plinio il Vecchio e Pomponio Mela) la indicarono tra le città lucane, quindi potremmo ipotizzare Palinuro come centro indigeno ellenizzato, con riferimento a Sibari nei commerci, ma anche a Hyele-Elea, Pixus e Laos, utilizzando altresì le vie istmiche per i collegamenti, quando il mare o la stagione non permetteva la navigazione. 

Nel luglio/agosto 1939, sulla collina San Paolo fu scoperta una NECROPOLI di 17 sepolture in parte sconvolte dai lavori agricoli. Il prof Panebianco che esaminò il sito sospettava che le sepolture poggiassero su fondi di capanne neolitiche perché scoprì avanzi di industria litica riferibile alle isole Lipari. Altri reperti, dal IV secolo alle Saline, due tombe a tegoloni e una stele di arenaria con iscrizione quasi del tutto cancellata. Qui si sospettava un piccolo santuario. Il mare, poi, ha restituito solo due anfore, almeno ufficialmente.  

Le radi naturali (radi perché anche davanti la spiaggia del Buondormire ci si può fermare con natanti grandi, se il sito del porto di Palinuro non è sicuro per alcuni venti), i due fiumi, il luogo molto ben messo non erano passati inosservati e le genti continueranno a interessarsi anche in epoche vicine.  Fu nel 1939 riconosciuto la struttura medievale della Molpa, un fortilizio pertinente al sistema difensivo costiero- del basso medioevo che doveva proteggere vigilare l’ingresso alla zona interna tramite la valle del Mingardo, lungo la quale fu innalzato in posizione imprendibile il castello di San Severino, ove risiederà il governatore della zona e Centola era casale e tale rimarrà fino al 1529 e pagherà le tasse di bagliva con Poderia e Foria il 15 agosto di ciascun anno a San Severino (casale principale). Questo castello ancora nel 1538 era in buono stato, in occasione della vendita del feudatario Girolamo di Morra.  

 La Molpa, secondo Procopio di Cesarea (La guerra gotica), fu distrutta dalle truppe imperiali per scacciare gli ostrogoti che l’avevano occupata come tutta l’Italia Meridionale. Se si fosse trattato del generale Belisario sarebbe l’anno 536 d. C. Gli abitanti superstiti fuggirono verso l’interno, alcuni si diressero alla montagna Fontanella, al Vallone e secondo costumanza si allontanarono per primi le donne e i bimbi lasciando solo gli uomini alla Molpa. Qui mi sovviene un’antica e simpatica favola riportatami e di cui voglio rinverdire la memoria: due sorrelle si posero a capo di bambini donne, vecchi e li guidarono nell’entroterra, al sicuro. Bisognava cercare un luogo  lontano dalle distruzioni. Giunsero dove c’era una sorgente, tra i monti, oggi Tulo di Camerota, una rivolta alla sorella decise “cà marroto” (qui mi fermo) e rivolta all’altra che volle continuare il viaggio spingendosi più lontano “Mala a tia” (Male a te). Cioè la nascita di Camerota e Maratea secondo questa leggenda trasmessa di generazioni in generazioni sarebbe frutto di una fuga per salvarsi e ciò per spiegare il simbolo di Camerota.  Molpa fu attaccata ancora nel 1113 dai barbareschi e poi nel 1129 da Ruggiero e nel 1197 da Enrico.  La stessa guerra del Vespro portò altre desolazioni per tutte le coste, pericolosissimi erano gli Agareni utilizzati dagli spagnoli contro gli angioini.  Nel 1284 il principe Carlo autorizzava la costruzione di fari nelle torri e nei luoghi marittimi per poter avvisare l’approssimarsi del nemico. Nel 1287 gli Almugaveri invasero tutto il Cilento. Nel 1291 Filippo della Porta chiese a re Carlo di poter cedere a Tommaso Sanseverino il castello di San Severino (allora “de Cammarota”) in cambio di altre terre più lontane dalla zona degli scontri, non avendo egli mezzi sufficienti per contrastare il nemico. Contemporaneamente San Severino de Cammarota e gli altri centri circonvicini   vennero esonerati dal re  dal pagamento delle imposte a causa della guerra e dei considerevoli danni, Questo fino al 1295 nella speranza che gli abitanti fuggiti rientrassero nelle. Lo stesso esonero si ebbe nel 1300. La situazione era grave e lo stesso castellano di San Severino, Pietro di Fussano scompare senza lasciare traccia, nel dicembre del 1299.

Le sventure non finiscono perché l’attacco più devastante ci fu l’11 giugno del 1464 da parte dei saraceni che sbarcarono a Palinuro nottetempo per dirigersi a Molpa. I pochi scampati si ritireranno all’interno e così fecero gli abitanti dei casali di San Serio, Buragano e Castelluccio. 

Nel 1554 era selvatica e sterile, ma non poteva essere diversamente dopo l’ assalto ad opera del Giudeo, aiutante del Barbarossa che attaccò nel 1533 tutte le marine fino al Tevere e l’altro attacco del 1552 di Dragut Bassà.  

Ormai era evidente che bisognava proteggere le popolazioni viventi nei pressi delle coste e i vicerè spagnoli avevano sia con Don Pietro di Toledo e con Don Pietro de Ribera avviato piani per la difesa di tutte le coste, coinvolgendo ingegneri quali Benvenuto Tortelli e Tommaso Scala e costruttori di Cava, rinomati per bravura edilizia. (1558-1567). Nel 1590 le torri saranno in numero di 339, ma molte già dirute, senza contare le mille difficoltà quali i terremoti del 1560 e 1561 e 1570, le epidemie del 1562-3, le carestie del 1559-60 e 1565-70 che desolarono il Viceregno per cui era problematico reperire i fondi necessari alla costruzione-riparazione delle torri. Nel caso del Cilento l’ordine della costruzione partì nel 1566 con 35 torri anche riattando e sequestrando fortificazioni private per avere una linea continua di difesa. Il disordine generato dalla richiesta dei fondi alle università fu altissimo: quelle interessate direttamente ritenevano ingiusto la tassa per la costruzione delle torri, dato che le stesse servivano anche alla sicurezza per quelle università non vicine al mare e quindi cercarono in diversa maniera di non pagare. La Regia Camera vi pose rimedio parziale dividendo tra tutte le università le spese del servizio di guardia.  

Solo nel 1567 si decise che le torri da costruire andavano sovvenzionate dalle Università, quelle  entro le 12 miglia dalle torri dovevano pagare 22 grani a fuoco, quelle più in là la metà. Le torri del Principato Citra da Positano a Sapri erano in tutto 111: 25 di epoca angioina (anno 1235),  12 di don Pedro di Toledo e 71 di don Pedro de Rivera. Sulle torri il capo era il torriere o castellano, sui subalterni i cavallari, soldati a cavallo ma anche a piedi.

Le torri ancora furono baluardo contro i barbareschi perché nonostante la sconfitta di Lepanto del 1 ott 1571, continueranno ad essere un pericolo, unica differenza la dimostrata possibilità di sconfiggerli anche grazie alla superiorità di armamento: i corsari ancora usavano gli archi compositi e cannoni mal fusi, mentre in occidente le armi da fuoco erano sempre più precise e dirompenti.

Le torri e i fortilizi riprenderanno vita durante il decennio francese (Murat), utilizzate per avvistare il nemico rappresentato da borboni e inglesi, e per impedire lo sbarco o il rifornimento di acqua, pagando un prezzo alto a causa dei bombardamenti cui esse torri furono sottoposte. Presso le torri venivano relegati a purgare la quarantena coloro che sbarcati a terra erano considerati collusi coi borboni o cogli inglesi. Dovevano rimanere per 28 giorni presso la torre, ricoverati in pagliarelle e con scarso e pessimo cibo, poi avviati all’interno presso un giudice che decideva la loro sorte: questo rendeva sempre più difficili i viaggi via mare, non solo il pericolo di essere depredati dagli inglesi, ma anche essere imprigionati una volta sbarcati.

Altro ritorno in vita almeno per alcuni fortilizi utilizzati quali posti semaforici e infatti all’alba del 1828, allorquando ci fu la famosa rivolta del Cilento: il forte di Palinuro era il punto di raduno della stessa alla ricerca di armi e sarà la fine per quattro degli autori, fucilati sul posto: a due, Domenico Capozzoli e Filippo Ruocco (fucilato a Camerota) fu spiccata la testa, queste furono ingabbiate, infisse su pali e messe lì a monito terribile. Da qui partì il rapporto semaforico del generale Saverio Del Carretto per il re a Napoli. Le teste furono rimosse solo nel 1860 con l’arrivo di Garibaldi.

 Le torre erano in gran parte ormai inutilizzabili e messe in vendita nel 1866 perché non considerate più fortificazioni e soprattutto per riempire le casse vuote del nuovo Regno d’Italia.

Esse restano simbolo forte della volontà di resistenza, della capacità costruttiva dei nostri avi che le eressero con sacrifici enormi sia pecuniari che fisici, ce ne dovremmo far carico e invece continuano a vivere nell’abbandono profondo. Bene chi ha deciso di ripristinare anche se solo parzialmente le strade cavallare che le collegavano ai paesi.

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