La forma eterna della poesia di Dante, che Mihaly Babits restituisce nella sua traduzione

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La forma eterna della poesia di Dante, che Mihaly Babits restituisce nella sua traduzione

“Dante Magyarországon” (La fortuna di Dante in Ungheria) è la  grande opera monografica e bibliografica che József  Kaposi scrisse nel 1911 e che pone le basi per lo studio dell’incontro fra il poeta fiorentino e i poeti magiari. L’italianistica ungherese ha prestato sempre grande interesse all’irradiazione dell’opera di Dante in Ungheria. Sul finire dell’800 molti intellettuali magiari tradussero il grande poeta fiorentino: János Angyal (Inferno, 1875), Károly Szász (Inferno, 1885; Purgatorio, 1891; Paradiso, 1899), Imre Csicsáki (Paradiso, 1887)… Tuttavia i critici e gli estetologi ungheresi convengono che la più autorevole traduzione dantesca sia quella che nei primi due decenni del ‘900 fece il giovane poeta Mihály Babits, che fu il più grande traduttore ungherese di Dante. Babits, che tradusse anche altri poeti europei, come Baudelaire, Poe, Tennyson, Swinburne e Carducci, e che viaggiò in Italia, amandola, per poi trasferirsi in Transilvania, ai confini dell’Europa, dove poter respirare l’atmosfera culturale europea, fu traduttore non pedissequo, e per questo eccellente. Babits tradusse Dante scrivendo un’opera poetica autonoma e orgogliosamente ungherese. La grandiosità della traduzione di Babits sta tutta nella straordinaria capacità di restituire nella lingua magiara la forma eterna della poesia di Dante. Le infedeltà linguistiche dal sapore decadente e la ricercatezza perfino più tortuosa dell’originale, mai disgiunte da una straordinaria tecnica stilistica e dalla fedeltà al testo dantesco, resero grande una traduzione che è un libro fra i più insigni della moderna poesia ungherese. Colpisce il fatto che la grandiosa traduzione babitsiana fu il riscatto morale e sociale di un troppo giovane e troppo provinciale studioso che, ai suoi esordi, lontano dai circuiti accademici, fu umiliato dai suoi contemporanei; finché non tradusse la Commedia di Dante. 

Subito, la “Dante Komédiaja” di Babits fu accusata di essere sentimentale, soggettiva e decadente, soprattutto nella più celebre e sublime parte: la confessione di Francesca, che ha sulle labbra ad ogni terzina la parola “Amore” (Szerelem):  

“Szerelem, gyenge szívnek könnyű méreg

társamat vágyra bujtá testemért, mely

oly csúf halált halt – rágondolni félek.

Szerelem szeretettnek szörnyű motel

szívemet is nyilával úgy találta,

hogy látod, itt se hágy keserve még el.

Szelerem vitt kettőnket egy halálba,

ki vérűnk ontá, azt Kaina várja

a gyaszos pár íly szavakat kiálta”.

Benedetto Croce, il cui pensiero era condiviso anche in Ungheria, scrisse in quegli anni che “le traduzioni sono come le donne: quelle fedeli brutte e quelle infedeli bellissime”. E dunque: Babits fu fedele o infedele a Dante? Bibits non fu veramente infedele; Babits ricostruì con virtuosismo stilistico un linguaggio poetico, interpretandolo attraverso la propria sensibilità. E anche nella traduzione della confessione di Francesca (Canto V dell’Inferno, vv. 100-108), la parte più contestata, la più intimistica, Babits seppe donare al testo dantesco la migliore mediazione poetica: una  traduzione fedele e bellissima che riuscì a rispettare, e ad esaltare, la freschezza eterna di Dante.

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