Conoscere i briganti: la loro umanità, il cibo, i giochi

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Conoscere i briganti: la loro umanità, il cibo, i giochi

Come trascorreva il tempo dei briganti? Quali i loro giochi, cosa mangiavano, quali i connotati della loro umanità? Inchiesta sul brigantaggio salernitano attraverso un libro da salvare: “Quattro Mesi fra i Briganti 1865/66”, di Johann Jacob Lichtensteiger.

A cura di ugo Di Pace; con un saggio su Raffaele Del Pozzo,  fotografo di briganti.

Avagliano Editore

Era il 13 ottobre 1865 quando Johann Jakob Lichtensteiger, disegnatore di tessuti presso l’azienda Wenner & C. di Salerno, venne sequestrato insieme al figlio del titolare dell’azienda e altri due connazionali da una banda di briganti. Furono tenuti prigionieri per tutto l’inverno sulle montagne, a scopo di ricatto. In quello stesso periodo un fotografo salernitano, Raffaele Del Pozzo, operava al servizio delle forze dell’ordine, riprendendo le immagini dei briganti catturati o uccisi. Le loro strade s’incrociarono il giorno del rilascio: era il 10 febbraio 1866. Il fotografo e i sequestrati si trovarono di fronte per pochi minuti, di qua e di là dell’obiettivo, collaborando alla realizzazione di uno dei documenti più rari dell’iconografia brigantesca. Rientrato nella normalità, il Lichtensteiger stese una vivace narrazione della vicenda, il cui testo, pubblicato un anno dopo la sua morte, si propone qui per la prima volta in traduzione italiana. Ugo Di Pace l’ha corredato di un ricco apparato di note e ha ricostruito il repertorio delle immagini dei briganti, in gran parte inedite, riprese nell’arco di un decennio dal Del Pozzo, studiandole in un saggio nel quale esamina la diffusione e l’uso che di tali immagini si faceva nella società dell’800, e recupera alla storia della fotografia la personalità finora sconosciuta di un pioniere.

Fu lo stesso curatore, Ugo Di Pace, a trovare nell’archivio Wenner: Vier Monate unter den Briganten in den Abruzzen (era stato pubblicato con il più esatto titolo: Vier Monate unter den Briganten in den Süditalien). Lo aveva scritto uno dei sequestrati: Johann Jakob Lichtensteiger. Siamo nell’ottobre 1865. I briganti della banda Manzo avevano sequestrato ben quattro persone; prelevati dagli spazi dell’opificio industriale furono: Federico (Fritz) Wenner, figlio dell’industriale svizzero, Isacco Friedli, Rodolfo Gluber. E il Lichtensteiger, autore del Diario. Anche se dal titolo parrebbe che i prigionieri siano stati trattenuti in Abruzzo, in realtà vissero per quattro mesi tra i bellissimi monti Picentini e la catena degli Alburni, giungendo sino ai lembi del Vallo di Diano. Non furono certo i primi stranieri a essere sequestrati dal Manzo: già nel maggio precedente, a Battipaglia, lo era stato il ricco inglese William Moens: proveniva da Paestum con un altro sequestrato, Murray-Aynsley. Tutto ciò è anche nel sito di Avagliano Editore (http://www.napoliontheroad.it/avagliano.htm), ma qui acquisito e rielaborato.

Veniamo ai fatti raccontati.  Dopo una enfatica descrizione della estate del 1865 e della bellezza dei luoghi (le migliaia di luci ci Salerno; le stelle; i fiumi; l’essere cullati sulle acque; i sogni), il diarista passa lentamente al problema: “La sera del 13 ottobre, alla solita ora, cessò il ronzio della filanda, che sorgeva un po’ distante dalla città. I cancelli erano aperti; gli operai sciamavano via fuggendo da quei locali divenuti familiari ma mai amati, e si disperdevano in tutte le direzioni in piccoli gruppi multicolori. Negli uffici, invece, il lavoro monotono (…) finiva prima: gli scrittoi venivano sgomberati, i pesanti brogliacci, i libri di cassa e i libri mastri venivan messi sotto chiave; subito dopo, all’aperto, principale ed impiegati respiravano  a pieni polmoni l’aria ristoratrice che un leggero vento portava dal mare”.

“Nello splendore del crepuscolo riluceva, incandescente come brace, Salerno, la città a terrazzi e la frastagliata costa rocciosa di Amalfi brillava purpurea. Si potrebbe contemplare questo meraviglioso spettacolo tutti i giorni, ed ogni volta ci sommergerebbe fino allo smarrimento; la natura non invecchia mai. Nere nubi simili ad enormi fantasmi si alzavano a ponente, poco a poco un forte vento le sospinse per tutto il firmamento. Il mare, che nelle sere miti rispecchiava migliaia di stelle e di luci, quella sera era un mondo pieno di tenebre, che scompariva completamente alla nostra vista, e se ne udiva soltanto il fremito. Ci affrettammo in direzione del Casino, abituale ritrovo serale degli svizzeri a Salerno. Una notte di un nero corvino avvolgeva città e campagna. Tuttavia anche questa notte aveva i suoi amici: il crimine ama l’oscurità”.

Erano le ore 22 e il fine narratore si trova con Fritz Wenner e Friedli. Sentono una voce: Silenzio! Niente grida, nessuna resistenza, o per voi è la morte!. Di lì a poco si trovarono in balia dei briganti. Erano in nove; tra loro anche Manzo. Sopraggiunsero altri quattro briganti con Gubler. Sentirono dire: “E ora avanti! Non temete, non vi sarà torto un capello: non si tratta di sangue ma di soldi”. Inizia così la incessante marcia fatta si stanchezza, fame, freddo, scarpinate tra calanchi e cime montuose. Il 17 ottobre, sul fare del giorno, giunsero su un ripiano di altura, in una tempesta. Solo alle nove trovarono un rifugio: ma era insufficiente. Lo svizzero compie un atto di grande lealtà: scrive che i briganti lasciarono a loro, ai prigionieri, il rifugio, la zona coperta.

Qualche ora dopo mangiano il classico “arrosto della zingara”: è il migliore nelle occasioni liete, gioiose, nelle scampagnate. Si spostano in continuazione; giungono su vette; si proteggono sotto le rocce; mangiano due mele a cena, offerte da un brigante; non si spiega come in piena notte il capo brigante riesca a trovarli e dire che lì non stanno al sicuro. Tocca muoversi ancora. Una parte dei briganti, con Manzo, si stacca per andare alla ricerca di cibo. Ritornano con pane  e mele. È in questo momento che i prigionieri scoprono che i briganti giocavano a soldi.

“La maggior parte del tempo essi giacevano a terra pigramente, ora supini, ora all’incontrario. Per tre quarti della giornata dormivano a turno”.

E: “(…) i briganti giocavano senza fine e di tanto in tanto prorompevano nelle loro originali imprecazioni blasfeme. Neanche la pioggia li disturbava, si stendevano i mantelli sul capo e continuavano a giocare.” Giocavano a carte o a testa e croce. Comunicavano tra loro facendo i versi degli animali. E, ovviamente, essendo il narratore certamente non indifferente, proveniente da una cultura ben diversa, stigmatizza il modo di vivere dei briganti, il degrado, la devianza; emerge qui e là forse anche un po’ di razzismo:Gioco e passione sono inseparabili: il giocatore pretende di vincere. Ma solo in quei boschi capii realmente quanto colga nel segno col suo giudizio lo spirito popolare, quando chiama il gioco l’ora di raccoglimento del diavolo, e le carte il suo libro delle preghiere. Il nome di Dio Padre, di Cristo, della Madonna e di vari santi veniva pronunciato sotto i rispetti più oltraggiosi. In che Manzo giocava e bestemmiava insieme agli altri. Dopo alcuni giorni, diversi briganti non avevano più niente da perdere al gioco, ed in più ora avevano anche debiti”.

Non mancò mai il pane e formaggio, il vino, l’acqua, e spesso ci furono anche i momenti dei maccheroni cotti in un paiolo. In una occasione anche la paura per un rumore fra i cespugli; la fuga e il ritorno verso la capanna, appena fu compreso che si trattava di un falso allarme: i maccheroni erano cotti a puntino. Giungerà, poi, pure la pausa del rito tribale: il maiale, comprato dall’addetto alle provviste, trascinato; ammazzato; sbudellato e squartato da Manzo (che si intendeva anche di quello, tiene a sottolineare). Una parte della carne fu salata e conservata dentro alcuni vasi, sotto la neve. Lichtensteiger, verso la fine, evidenzia che, malgrado laceri e sporchi, sono, essi prigionieri, addirittura sovrappeso. Senza che il narratore lo voglia, emerge anche uno spaccato della cultura dei prigionieri: “(…) passavamo una parte della giornata a trasformare la banda in un giardino zoologico e in una collezione di rarità, e cioè ribattezzavamo ogni brigante col nome di un animale o di una cosa … I nomignoli alludevano per lo più a qualche caratteristica dei briganti …scimmia…bufalo…cubo…” Non manca il confronto oseremmo dire etnico tra gli italiani e i tedeschi. Lo fa addirittura narrando del momento del rilascio: “L’italiano non si accontenta di una semplice stretta di mano, come il tedesco. Girammo di braccia in braccia, e ricevemmo quasi teneri baci d’addio!”. Furono liberati dopo aver visto le colline di Polla, le asperità del Cilento interno.

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