Le foto saranno al Museo laboratorio di Arte Contemporanea Università Sapienza dal 25 febbraio al 4 marzo e alla Casa Internazionale delle Donne dal 15 al 17 marzo 2013.
In seguito transiteranno a Messina, teatro occupato Pinelli; Savona, fortezza del Priamar; Rende, Museo MAON; Taranto, grotte De Beaumont-Bellacicco e in altre città le cui sedi ancora non sono state individuate.
La mostra sarà anche a luglio al Museo Regionale di Scienze Naturali a Torino negli spazi che puoi vedere con altro materiale di cui sarà utilizzato lo stile per la comunicazione.
È probabile che saranno installate anche a Baronissi e a Laurino, nel castello Longobardo, in agosto.
Il progetto è nato dalle idee di Alessia e Michela Orlando, Valentina Villani e Veronique Burrascano e ruota attorno al dramma delle violenze sulle donne nel mondo.
Il percorso espositivo condiviso è integrato con fotografie di Mario Cucchi, Gian Antonio Maria Giordano, Valerio Pascucci e Giuseppe Villani.
L’intenzione prevalente è stata: non limitarsi a trattare il dramma del femminicidio, la punta dell’iceberg, che interessa e deve interessare ma non può bastare. L’esito finale, ovvero la lettura delle singole fotografie nell’ambito di un chiaro filo conduttore, evidenzia gli altri drammatici aspetti. Sono sintetizzabili in una serie di NO e sollecitazioni.
La proposta è sia esplicita che intuitiva: no al femminicidio e alla violenza contro i corpi ma anche contro le menti delle donne; approccio consapevole a temi tipo la prostituzione; parità di diritti/opportunità ovunque.
Considerando i commenti al video realizzato da Veronique Burrascano, che contiene parte delle foto inserite nel percorso espositivo, si intuisce che il dibattito sulle fotografie in mostra e sul loro senso si è già avviato.
Occorre alimentarlo con urgenza.
Di seguito il video di Veronique Burrascano e alcune foto tratte dalla mostra:
Otium cum dignitate (Cicerone, De Oratore I – 1,2), ovvero nobile indulgenza…
Che le Vostre ferie siano intellettualmente costruttive!
In occasione dell’approssimarsi delle vacanze estive Pragmata propone agli amici autori la rilettura e rivisitazione dei propri manoscritti lasciati accantonati in un cassetto o in una cartella del proprio PC, siano essi poesie, racconti, romanzi, saggi o pensieri.
Giudicato a distanza di tempo, quanto precedentemente elaborato è sempre attuale? Continua ad emozionare?
Se le Vostre risposte sono positive, perché non donare il Vostro lavoro creativo e di intelletto alla conoscenza del pubblico dei lettori?
La nostra commissione di lettura si offre di valutare I Vostri manoscritti, senza impegno alcuno, per giudicarne la pubblicabilità e proporre formule personalizzate caso per caso sia per l’edizione di libri che di e-book.
Così tutto questo è compiuto; ma ora tu ascolta come io ti parlo: te lo rammenterà ancora il dio. Alle Sirene prima verrai, che gli uomini stregano tutti, chi le avvicina. Chi ignaro approda e ascolta la voce delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, tornato a casa, festosi l’attorniano, ma le Sirene col canto armonioso stregano, sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano. Ma fuggi e tura gli orecchi ai compagni, cera sciogliendo profumo di miele, perché nessuno di loro le senta: tu , invece, se ti piacesse ascoltare, fatti legare nell’agile nave i piedi e le mani ritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde ti attacchino, sicché tu goda ascoltando la voce delle Sirene …
Omero , da: Odissea.
… con stupefacente vigoria emerse dritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il
collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella
barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di
minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta …
Da La sirena, Giuseppe Tomasi di Lampedusa
CILENTO: SULLE ROSE, SULLE SIRENE E SULL’OSTRACISMO TURISTICO
Edgar Allan Poe conosceva benissimo il Cilento. Non a caso parla anche delle rose rifiorenti Di Pesto. E Paestum era ben noto anche a Goethe, che ne divulgò la mozzarella nel mondo. Possiamo opinare che forse la stessa zona fu nota a Buffalo Bill che, dopo aver fatto carneficina di una specie animale simile alle bufale, in America, venne pure in Italia con il suo circo. Almeno gran parte di queste notizie fanno parte della cultura Classica come notizie clamorosamente interessanti: che aPaestum le rose fiorissero più volte l’anno lo si sa da tempo immemore. Eppure, eccetto pochi rari casi, i viaggiatori del Grand Tour non potevano arrivarci: c’erano i briganti e chissà quanti altri generi di satanassi avrebbero potuto intercettarli, per fargli male davvero; rubargli le monete e forse anche la vita. Come non bastasse: c’era l’aria malsana; la facevano da padrone le zanzare; le montagne erano impervie … E c’erano quegli animali, sempre loro, brutti quanto la peste: erano, appunto, le bufale, animali ben più pacifici dei bisonti, quelli falcidiati nell’800 americano da gente come quel William Frederick Cody, Buffalo Bill, appunto.
Il suo viaggio in Europa fu narrato daHenry Blackman Sell: « … l’onorevole colonnello William Cody, che apparve ai nostri nonni, quando venne in Italia, un Achille, un Orlando o un Garibaldi, e fu ricevuto in tutte le corti europee, era solo un gigante di argilla o possedeva qualche autentica dote? E perché se fu soltanto un massacratore di bisonti e di indiani, ancora oggi l’America sbandiera i suoi vecchi poster e fonda un museo in suo onore? »
Tralasciamo questa domanda, tanto, al di là del fatto che secondo noi erano più brutti quelli che non venivano nel Cilento che gli animali, è più importante trattare altri fatti storici. Il 18 settembre 1838 venne pubblicato per la prima volta il racconto Ligeia (Ligeia) in American Museum Magazine. Autore: Edgar Allan Poe. La trama è stata universalmente ritenuta coinvolgente: un uomo racconta della propria compagna, Ligeia. Ne evidenzia i tratti fisici misteriosi, la erudizione, gli occhi grandi come unità di misura del sentimento. Purtroppo si ammala. Muore. L’uomo si risposa con lady Rowena Trevanion e parte verso una ex abbazia. L’edificio è riccamente arredato; spicca la camera da letto tappezzata di arazzi che cambiano forma al modificarsi della prospettiva di osservazione.
Perseguitato dal ricordo di Ligeia, l’uomo cade nell’abuso di oppio. Giunge a detestare la nuova moglie che, intanto, comincia a sentire voci e vede figure spettrali. Andando a prendere un elisir, scorge un’ombra su un incensiere. Mentre la moglie beve il vino, nota alcune gocce cadere nel bicchiere. Lady Rowena peggiora e muore. L’uomo, ormai sconvolto, desume che tutto quanto abbia visto sia dovuto all’effetto dell’oppio, oppure causato dalla fervida immaginazione. Nella veglia funebre, invece, assiste a un evento prodigioso: più volte nel corso della notte, preannunciato da un singhiozzo, il cadavere riprende vita: il colorito si riaccende; accenna lievi movimenti di palpebre e di labbra; infine si alza ponendosi al centro della stanza. Caduto il velo sepolcrale, lady Rowena assume lentamente i connotati di Ligeia.
Successivamente il racconto venne pubblicato nella celebre raccolta Racconti del grottesco e dell’arabesco. Il successo di questa operazione editoriale non rappresentò un affare per l’Autore: siamo nel 1840; l’editore, Lea & Blanchard, pubblica l’opera in due volumi, con l’intenzione di sfruttare il successo di La rovina della casa degli Usher. Non pagò alcun diritto a Poe, che ottenne solo 20 copie gratuite del libro. Si tratta dell’opera in cui il geniale scrittore americano si espresse esponendo la parte più irrazionale della sua personalità; contiene anche il celebre La rovina della casa degli Usher, la cui struttura è stata ritenuta complessa. Il fatto è narrato dall’ospite in visita all’amico Roderick Usher. Tutti gli elementi che via via si affastellano, sono inquietanti: una cupa giornata; la poco tranquillizzante vista della casa che dà su uno stagno nero; una quasi impercettibile fessura nella facciata; le stesse acque malsane; la luce fioca; l’esangue amico; la malattia che affligge la sorella Madeline; la morte, la sepoltura e il ricomparire di Madeline; la morte di Usher; la distruzione immediata di casa Usher. I sottili meccanismi del racconto creano una situazione scarsamente delineata nei contorni e producono un potente disagio. Questo magma narrativo rapisce il lettore; nonché la critica, che si è posta il problema di indicare l’atmosfera come materia di studio psicoanalitico. Operazione certamente non limitata a questo racconto: vi è forse una sola opera di E.A. Poe che non abbia richiesto lo sforzo di scendere nei meandri della psiche?
Ritornando al racconto di Poe, Ligeia: in Italia è stato pubblicato anche dalla Rizzoli nel 1988 nel volume “Tredonne”, che contiene tre racconti che ruotano ognuno intorno a una figura femminile: Berenice, Morella e, appunto, Ligeia.
Si tratta di un breve racconto che ha posto un problema a un blog di appassionati: come si pronuncia Ligeia? Lo si è affrontato anche nel blog The Edgar Allan Poe Bicentennial. dove si legge un post intitolato “The pronuncition of Ligeia“, che rinvia a un forum in cui si dibatte della medesima questione. Vi si nota che la parola Ligeia nella poesia Al-Araaf fa rima con la parola “idea“:
Ligeia! Ligeia! My beautiful one! Whose harshest idea Will to melody run,
(…)
Noi, per quanto rilevanti siano i problemi connessi alla pronuncia (è utile evitare errori quanto meno per cancellare dal viso degli anglofoni i sorrisini ironici quando prendiamo dei granchi colossali oppure, peggio ancora, per evitare l’equivoco imbarazzante e l’incomprensione), troviamo più interessante approfondire la figura di LIGEIA, al di là dei problemi di pronuncia del bellissimo nome. Figura, peraltro, ben nota a Edgar Allan Poe.
Oltretutto: anche Tomasi di Lampedusa narrò di una sirena; di Lighea, appunto, in un suo racconto che aveva titolato La sirena. La moglie, tre anni dopo la sua morte, gli attribuì il titolo Lighea (Feltrinelli, 1961). La struttura del racconto è singolare: narra di due storie che si sviluppano in epoche diverse (1938 e 1887). Un racconto funge da cornice-contenitore e l’altro è l’affresco pittorico inscritto nella cornice. È l’incontro tra il surreale e il reale. L’uso di alcuni termini dialettali rendono il tutto più realistico.
E veniamo al nome “Ligheia”: deriva dalla sirena greca dotata della più melodiosa voce; ma non è il primo esempio di essere incerto (animale-essere umano-uccello-pesce, o cosa altro ancora?).
Tracce di sirene si rinvengono dappertutto e già nell’ottavo secolo prima di Cristo: i Babilonesi adoravano un dio sorto dalle acque. Insegnava le arti e le scienze agli esseri umani. I Siriani, invece, adoravano una dea legata all’influenza della luna e delle maree: Atargatis. Veniva rappresentata come una sirena; subì la trasformazione in pesce giacché aveva dato alla luce un bambino. Lavò l’onta vergognosa abbandonandolo e uccidendo l’uomo con cui l’aveva generato.
Nella cultura tedesca si parla delle sirene: Meerfrau, Nixe Nixe. Abitavano in acque fiumi ed erano capaci di ammaliare l’uomo per poi affogarlo.
Nella mitologia russa sono presenti creature marine come il Dio dell’acqua e le figlie nonché le ninfe maligne: al solito, facevano morire affogati i nuotatori.
Per i giapponesi è leggendaria la figura di Ningyo, un pesce con testa umana.
In Polinesia il creatore, Vatea, veniva dipinto come un ibrido umano – delfino.
In Irlanda si rinvengono le sirene: Merrows o Muirruhgach. Stavolta, stranamente, scopriamo che vivevano su una terra asciutta, ma si trovava sotto il mare.
Anche in Scandinavia e in Norvegia si può leggere una ricca mitologia popolata di tritoni e sirene. In Norvegia, le sirene sono descritte come creature spesso crudeli e il loro avvistamento non era ritenuto di buon auspicio.
Ligea, come figura mitologica, la si ritrova sia nell’antica Grecia che in Roma. Nell’arte greca, fin dal periodo arcaico, venne rappresentata con busto di donna dalle braccia nude e con corpo di uccello con coda e ali. Compare anche in molte opere scultoree e in fregi posti a ornamento di tombe. Di solito è intenta a suonare la cetra. In origine erano ritenute geni della morte. Finalmente, però, le sirene, ammalianti conquistatrici degli uomini, appaiono nell’Odissea di Omero. Sono, ovviamente, le tentatrici di Ulisse. Per legarlo usano il canto.
Sono state genericamente collocate in Italia meridionale. Figlie di Forci e di Ceto. La leggenda dice che erano due o quattro, nonché vergini e compagne di giochi di Persefone. Giacché non erano state capaci di evitare il rapimento della figlia di Persefone, architettato da Plutone, vennero trasformate in sirene dalla potente Demetra.
La leggenda vuole che Ligea, la più piccola delle sirene, decisa a morire, si lasciò andare nel mare in tempesta. Giunta nel Golfo di Sant’Eufemia, fu rinvenuta, morta, dai marinai sulla riva dell’Ocinaro (Okinaros). È lì che sarebbe stata sepolta. Si ipotizza che l’Okinaros non fosse che il fiume Bagni.
Il tema: “Voci di donne 2012. Il racconto in trenta righe: la prima volta che…”.
Il concorso è promosso dall’Assessorato al Decentramento del Comune di Ravenna: è la settima edizione dell’iniziativa letteraria dal titolo generico “Voci di donne 2012: il racconto in trenta righe”.
Nacque con l’intento di permettere alle donne di raccontarsi utilizzando la parola, in racconti brevi.
Basta essere donne, per partecipare.
Si tratta di scrivere qualcosa come una sola pagina: trenta righi, 80 battute in ognuno, quindi complessivamente massimo 2.400 battute spazi compresi.
Iniziativa letteraria a Piangipane 05/12/2011 “Voci di donne 2012. Il racconto in trenta righe: la prima volta che…” L’Assessorato al Decentramento del Comune di Ravenna, promuove la settima edizione dell’iniziativa letteraria “Voci di donne 2012: il racconto in trenta righe”. Nata con la finalità di permettere alle donne di raccontarsi attraverso la forma scritta, lasciando andare la propria fantasia e comunicando le proprie sensazioni, idee, pensieri, speranze, delusioni, l’iniziativa ha come tema, per l’edizione 2012: “La prima volta che…”.
Chi volesse partecipare può scegliere di: 1) spedire o consegnare a manoil proprio scritto in busta entro mercoledì 22 febbraio 2012 a: Comune di Ravenna – Ufficio Decentrato di Piangipane / Biblioteca Piangipane “Voci di donne 2012” – Piazza XXII giugno 1944, n. 6 – 48124 Piangipane (RA) 2) inviare il racconto via mail a: vocididonne2012@comune.ra.it Lo scritto non deve essere superiore alle 30 righe (di 80 caratteri ciascuna). Non fa fede il timbro postale. La partecipazione è gratuita e aperta soltanto alle donne. Non sono previsti premi per le partecipanti, ma solo riconoscimenti simbolici oltre all’omaggio della pubblicazione contenente tutti i racconti arrivati.
L’Assessorato al Decentramento organizzerà un evento conclusivo al Teatro Socjale di Piangipane, lunedì 5 marzo 2012. In quell’occasione verranno letti alcuni racconti precedentemente selezionati da una giuria di esperti.
Per informazioni: Ufficio Decentrato di Piangipane tel: 0544 418804 e-mail: vocididonne2012@comune.ra.it
Ho alzato le braccia alla luce Ho sentito treni muti Ho visto inesplicabili punizioni
Vorrei morire, stringendo i pugni Lo vorrei con ogni forza Ma vorrei prima aver vissuto
Intervistiamo Maria Nicoletti, poetessa originaria di Laurino che con la poesia “Avrei voluto vivere” vince il concorso indetto dal portale 5 avenida dedicato a 5 eroi cubani detenuti da oltre tredici anni.
Maria Nicoletti, Laurino… Cilento… Non c’è dubbio. Allora, nel 1958 si nasceva a casa, a limite, casi estremi però veri, per strada, ma nel proprio paese.
È felice? Che effetto fa essere davvero in cima al mondo della poesia… ciò detto senza enfasi, alla luce delle molte liriche prodotte per il concorso 5 poesie per ognuno dei 5, oltretutto dovendosi confrontare con i formidabili poeti cubani? No, no. Ci mancherebbe altro. Sono certa che nessuno dei poeti che hanno conferito le proprie liriche abbia mai sentito di essere in gara. L’idea era: portare a conoscenza dell’opinione pubblica il dramma dei cinque detenuti. A questo progetto ho aderito volentieri. Di conseguenza e francamente: fa rabbia, pur avendo avuto riscontri favorevoli. Non mi piace l’idea della prigione. È troppo vicina a quella dei manicomi e pare chiaro che le celle, quasi dappertutto e quasi sempre, siano piene di povera gente, maleodoranti, anguste… Chi potrebbe pensare che un tossicodipendente debba essere segregato invece di essere curato? Qualora, poi, ci si ritrovi a essere detenuti ingiustamente, addirittura per evitare reati e, comunque, per cercare di salvare la vita ai propri connazionali, mi pare evidente come ci si trovi in una situazione che dovrebbe togliere il sonno a tutti. Per me civiltà giuridica significherà sempre e solo che è meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente.
Prima della poesia AVREI VOLUTO VIVERE, hai prodotto altro? Altre quattro poesie per i 5 e molte altre, mai pubblicate e mai fatte leggere, contro i manicomi, per la tutela dei bambini, degli anziani, della natura e così via.
I manicomi: un tema ricorrente pare… Certo. Forse anche per un fatto generazionale. Le brutture delle istituzioni manicomiali sono indigeste. Per fortuna c’ero nel movimento studentesco che ospitò Franco Basaglia, Sergio Piro e altri in una assemblea a Salerno nel 1977. Poco dopo entrò in vigore la cosiddetta legge Basaglia. Fu la liberazione, ma esistono ancora, pure in Italia, i manicomi criminali.
Abbiamo azzardato una analisi della tua lirica. La trovi corretta? Credo sia fondamentale che ognuno legga e riconosca nei versi ciò che ha dentro di sé, relativo al tema. Tuttavia, non posso negarlo, ci sono molti argomenti che avete tratto correttamente dalle parole. È arrivato il senso e mi fa piacere.
C’è altro che ci è sfuggito? Mancano le ragioni, il retroterra, che non possono essere conosciuti solo leggendo dei versi, però a me pare chiaro che chi scriva, se si hanno presenti le proprie origini, l’ambiente dove si sia cresciuti, le storie che ascoltate, si sceglierà un tema, invece di un altro. Ogni parola sarà intrisa delle tue radici, di ciò che sei.
E cosa sei tu? Una donna. E Cilento. Solo Cilento, il che significa bassa statura (negli anni ’50 difficilmente si trovavano cilentani alti), come i sardi, a esempio, ma non lo sapevi, visto che ti bastava salire al Palazzo, o guardare giù dal muraglione di Laurino, per sentirti una aquila. Cos’altro sono i cilentani… Beh, avendo in mente quelli del Cilento interno, visto che noi a mare non ci andavamo, da piccoli: natura, animali, anziani in piazza, vicoli senza pericoli, pane cotto al forno a legna, formaggio, lavoratori straordinari che si portavano e si portano dietro, per il mondo, ferite aperte da ingiustizie estreme. Eravamo, siamo, anche il frutto evidente di una cultura antica (ma è sempre così): basterebbe analizzare il dialetto, il folclore, le opere che si mettevano in scena a teatro, la religiosità vissuta come fatto collettivo, rituale, non emarginante e non solo consolatorio… Forse per questo, quando qualcuno ci chiama, soprattutto se lontani dal Cilento, impieghiamo poco a capire quali siano le cause giuste. Quella dei 5 detenuti in U.S.A., a me svelata dall’incontro fortuito con 5 Avenida e con Stefano Guastella, mi parve subito più che giusta. Lo è ancora e mi ferisce sapere cinque persone recluse ingiustamente.
E i forconi dei contadini pronti a lottare per avere o difendere le terre, gli incendi dei boschi di Laurino, appiccati per la rivoluzione del 1828, i briganti… hanno a che fare con i tuoi versi, ci sono tra quelle parole come retaggio storico? Molto tempo è passato. I cilentani sono ancora legati alle terre, ma quasi sapessero che sono sia la culla che il talamo. Negli anni che dite voi (complimenti) molti si nascondevano tra le gole più impervie, altri si apprestavano a fuggire. Fu un salasso, le migliori energie vennero cancellate. Cuba ha subito e subisce vicende simili, ma accade da cinquanta anni a questa parte, mi pare assurdo. Spero finisca presto, subito.
C’è altro che vorresti dire per chi ti conoscerà leggendo l’intervista? Sì: per gli amici sono Cristina, ma non pensate a me, che ho solo scritto dei versi. Se potete pensate ai cinque eroi cubani e a chi ha voluto far conoscere la loro storia: Stefano Guastella e Quintavenida.
Quando decidemmo di riportare nelle terre di origine i cilentani che erano andati via, costretti a fuggire per salvarsi nell’eccidio postunitario e nei decenni di emigrazione transoceanica nonché verso altri Paesi europei, escogitammo una storia di genere fantasy. Cavalcava il tema, ancora attuale, della nefasta profezia attribuita ai maya (erroneamente). Fu pubblicata in forma di eBook. Il fatto che fosse scaricabile gratuitamente su moltissime piattaforme, ne ha consentito e ne consente la lettura in tutto il mondo. La conseguenza: sin qui sono stati un numero enorme i lettori che hanno letto il nome Laurino, Cilento interno, di cui poco si parla.
Nessuno lo aveva previsto.
Per fortuna c’è stato anche il film “Benvenuti al Sud”, nonché altre esperienze artistiche, che hanno consentito numerose opportunità di visibilità diffusa. Adesso che il 21 dicembre di questo anno si approssima, si parla moltissimo ancora del Cilento.
Noi stesse, anziché farci vincere dalla paura, ci siamo dedicate alla scrittura di “Twins”, di cui Giornale del Cilento ha più volte scritto. Torniamo, così, sul tema dei cilentani nel mondo, giacché i protagonisti più importanti sono tutti originari del Cilento e c’è pure un omaggio a Roberta Gregorio, anch’ella cilentana: appare nelle vesti di una affascinante figura di secondo piano e si chiama Roberta Delphina, che intesse un singolare rapporto con un misterioso giovane, costretto a venire nel Cilento, terra di origine della famiglia, per ragioni oscure. Via via si sveleranno: saranno le traiettorie seguite dal dramma che esploderà, appunto, nel Cilento.
Inutile dire che si tratta di un eBook seriale, settore di specializzazione di Chichili Agency.
Anche in questo caso rileviamo una profezia mancata nessuno aveva previsto il successo degli eBook in Italia e che nascessero opportunità nuove nel Cilento.
Le suggestioni del romanzo sono in parte riversate in un video nato da sinergie artistiche tra noi, in veste di AMO, e FILONIDE, una associazione di Taranto che sta realizzando ottimi interventi di diffusione e arte che trovano spazio nel mondo intero (recentissimamente sono stati premiati a Shanghai, Cina). Come si potrà notare osservando il video, il clima è tutto cilentano.
La poesia, tenera e indimenticabile forma espressiva che ti riporta indietro nel tempo, ai banchi della scuola, è quanto di meglio possa servire in un mondo globalizzato e velocizzato. Bastano due versi per chiedere perdono, per aprire ferite che non si rimargineranno, per essere trasportato in Universi altri, fatti di tenebre, forse, ma anche di luci abbaglianti e chiarificatrici.
Quanto di meglio: è l’unico strumento d’arte, non c’è dubbio alcuno e non occorre elencare i grandi nomi, che assume le forme del grimaldello, capace di aprire porte rinserrate, soprattutto quelle della mente; è anche, materialmente, un ariete capace di sfondare le stesse porte, quelle delle menti ottuse, nonché di ledere quelle fuori dai corpi umani. Cosa sia, invece, e cosa diventi la Poesia se i versi poetici siano interpellati per aprire prigioni vere, volute dagli uomini, spesso ingiustamente, e difese da porte potenti escogitate in questo presente, allora occorre procedere con prudenza. Allora è richiesta innanzitutto la forza d’animo e la lucidità di almeno un essere umano. Nel caso di cui ci occupiamo è bastata la mente di Stefano Guastella. C’è voluta poi, una magia, qualcosa che moltiplicasse le sue energie in maniera adeguata alle intenzioni. C’è voluto il web. E c’è voluto un portale, 5 avenida, che volesse, attraverso la sua Sezione Cultura e non solo, occuparsi di 5 eroi detenuti da oltre tredici anni. Ovunque si potrà leggere che si tratti di 5 eroi cubani, ma noi non ne faremmo una questione di nazionalità. C’è forse differenza tra un detenuto ingiustamente in Italia, in Turchia, in Cina, in Russia, in Francia, in Germania? E se questi detenuti fossero, invece, come purtroppo sono tuttora, negli U.S.A. di Obama, che tutti avremmo forse votato per agitare onde nuove, si potrebbe mai assumere che ci siano differenze?
C’è voluta, infine, una intenzione rivoluzionaria di autori che prestassero la sensibilità, più che il tempo, a un tema potente davvero: la liberazione di chi patisce in galere assurde, ingiuste, da abbattere, con grave danno per le loro famiglie e la nazione che ne diede loro le origini.
La domanda restata inevasa va ribadita: si potrebbe mai assumere che ci siano differenze per via della nazionalità dei detenuti? L’interrogativo strugge, macera, non può lasciare indifferenti, ma è evidente come sia suggestivo, nel senso che la risposta è implicita, pertanto due sono le possibilità: o è ingenuo o non bisogna più dire altro.
Facciamo un salto e inabissiamoci nella sensazioni suscitate dalla poesia vincitrice del concorso (con altre selezionate tra le migliori italiane e cubane, sarà pubblicata in forma di eBook per tutti e cartacea per le famiglie dei detenuti), copiamola e incolliamola di nuovo:
AVREI VOLUTO VIVERE Maria Nicoletti, Italia
Ho alzato le braccia alla luce Ho sentito treni muti Ho visto inesplicabili punizioni
Vorrei morire, stringendo i pugni Lo vorrei con ogni forza Ma vorrei prima aver vissuto
Prima di svelare altro, che troviamo essenziale, affrontiamolo questo testo, analizzandone il contenuto, non la costruzione. Ci si accorge subito come non sia possibile fuggire al suo fascino. Lo leggi, lo rileggi; leggi ancora e non puoi sfuggire a una magia inesplicabile. Non è facile recuperare il senso di certi versi, se piangi. Forse, conoscendo le ragioni che hanno ispirato un poeta, cedi per accondiscendenza. E allora rileggi. No! L’emozione ti sta travolgendo e più cerchi di resistere più ti travolge. C’è qualcosa che sfugge alla mente e allora devi lasciarti prendere, che senso avrebbe non farlo?, da altro: dal cuore, forse, dalla pelle, di certo, giacché la senti vibrare, da ciò che è ancora mistero e che forse un giorno ti sarà svelato. Ragioni, usi i tuoi strumenti di analisi, ti arrendi. Ci dormi su e forse intuisci qualche approccio che potrà semplificarti la vita, che ti farà conseguire un obiettivo: capire perché piangi.
È solo il protagonista della lirica. Solo! Nel buio, forse. Il suo nome ti è ignoto, ma sai trattarsi di un cubano (conta poco la terra di origine, forse, ma è per qualcuno che dall’arcipelago cubano proviene che tu stai piangendo). Piangi ancora, anche se sai che la lirica è dedicata a un nome, o forse a cinque.
Ho alzato le braccia al cielo È lui che alza le braccia al cielo, o forse sono cinque, ma di certo non è chi la poesia l’ha sentita salire dal suo inconscio e l’ha riversata su un foglio bianco. Al cielo: e dove se no? Da dove viene la Luce, quella cui allude il primo verso? Ma prima, prima che le braccia fossero alzate, dove le teneva o dove le tenevano? È chiaro: forse faceva o facevano qualcosa di irrilevante; forse era un uomo, o erano cinque uomini, qualsiasi intento o intenti a pensare a una Terra, la meravigliosa Cuba, che voleva o volevano semplicemente evitare lutti alla sua o alla loro dolcissima e tenera gente. C’è forse un reato in ciò?
L’azione prosegue:
Ho sentito treni muti Atroce! C’è il silenzio, un contenitore orrendo che fa immaginare tempi post atomici. Ma c’è il treno, è quel mezzo di locomozione a essere muto. Allucinata ipotesi di un dramma che ancora non conosci, che nessuno ti ha ancora svelato. Il treno … non è forse anche un contenitore di istanze umane, di bisogni, di viaggi intrapresi per fuggire, per salvarsi, per andare a procacciarsi la vita altrove? E non potrebbe svolgere forse, chi sa di teatro lo sa, la funzione di una valigia sul palcoscenico? La valigia è la casa; lo è anche il treno. Puoi, pertanto, immaginare viaggi silenziosi, con menti umane tese a conservare segreti per non rischiare di compromettere le missioni. Tuttavia, accedendo a una cultura tutta televisiva, il treno era anche il cavallo d’acciaio che turbava le praterie degli indiani. Non si può negare che quei treni, anche se parteggiavi per gli indiani, erano festosi quando sbuffavano vapore; i suoi versi incarnavano il progresso che avanzava. Qui, in questo verso, il treno è muto. Non serve agli americani e quel silenzio ci martoria. I cinque detenuti avranno forse riposto speranze, desideri, nostalgie in qualcosa di simile? Cosa cercano, cosa gli manca, dove possono scoprire quel tesoro che appartiene al passato e che stanno cercando nel silenzio dei sogni turbati?
Ho visto inesplicabili punizioni Facile, troppo facile e ciò acuisce il senso del soffrire: sa o sanno che sono innocenti. Resteranno inspiegabili e ingiuste le punizioni.
Vorrei morire, stringendo i pugni La forma singolare nulla dice su chi e su quanti siano coloro che, giunti al momento in cui si deve passare all’azione, nel tempo presente, osa o osano esprimere un desiderio: vorrebbe o vorrebbero morire, il che forse significa che sa – sanno di essere mortale – mortali, essendo difficile immaginare che un eroe voglia la morte fisica. Egli – loro, semplicemente saprebbe – saprebbero morire, stringendo i pugni. Avrà ciò un senso politico o sarà solo un altro gesto di resistenza. per non abbandonare l’obiettivo prefissato?
Lo vorrei con ogni forza È una espressione non riconducibile a chi si sia arreso, ma a chi sia consapevole sì. Egli o loro sa o sanno che una forza invincibile domina il corpo. Le pareti della prigione sono imbattibili. Quindi c’è da chiedersi cosa si vorrebbe con ogni forza: morire o stringere i pugni?
L’ultimo verso svela e spiega tutto: Ma vorrei prima aver vissuto.
Ecco, la verità delle intenzioni è finalmente palese: il protagonista (ognuno dei cinque), non avrebbe problemi a morire, a farlo stringendo i pugni delle braccia alzate alla luce. Tuttavia, tredici anni di prigionia ingiusta e chissà quanti anni ancora da vivere tra quattro mura, o sotto osservazione in terra straniera, non sono vita. Non si può morire se non si è vissuti. Occorrerà rinascere, vivere, prima di alzare le braccia alla luce, stringere i pugni, morire. Occorrerà ritornare in libertà.
I grandi artisti italiani sono legati da un “fil rouge” che ci conduce verso la cruna dell’ago, verso la porta spazio – tempo che ti fa sporgere sull’infinito, sul magma delle loro Opere in note, in pennellate, in parole. Si potrebbe utilizzare l’approccio più ovvio: segnalare coloro i quali abbiano avuto successo, divenendo noti al pubblico. Si potrebbe, così, “incontrare” gente come Giotto, Cimabue, Dante, Michelangelo, Leonardo, Bernini, Caravaggio, Raffaello, Vittorio De Sica, Totò, Mina…
Seguendo quel filo siamo giunte a un immenso artista che ha prodotto e produce utilizzando sia le parole, che la musica e l’immagine: Don Backy (al secolo Aldo Caponi, origini toscane, di Santa Croce sull’Arno) che, tra l’altro, recitò anche con Totò in Il monaco di Monza. Ci è accaduto di sentire il parere di chi c’era, tra il pubblico, in un concerto di piazza: era il 18 agosto 1978, nel Cilento, a Laurino. Un successo strepitoso. Ci è sembrato giusto anticipare l’intervista con una specie di nota spedita a personalità delle quali ci interessa molto il parere. Anche se si immagina si sia tutti isolati, durante questo periodo di festa, comunica Monica Palozzi: “Sì, davvero una brava persona. Non si è mai arricchito quanto avrebbe potuto né speculato su altri come altri hanno fatto su di lui. Ebbi modo di conoscerlo a Trevignano (lago di Bracciano) di persona tantissimi anni fa, una trentina forse, avevo accompagnato un mio carissimo amico e compagno-flirt di scuola con cui mi frequento ancora, tal Carlo D’Alatri (cugino del regista Sandro D’Alatri e oggi autore a radio-rai), che per un periodo di tournée estiva doveva accompagnarlo con le tastiere. Mi fece l’impressione di un uomo molto timido e umile nel proporsi, lontanissimo dall’immagine preconcetta del divo. (…) Sarò felicissima di leggervi…”.
Paolo Franchini: “Ho incontrato Aldo un paio di anni a fa a Varese, quando venne a presentare un libro. Tra l’altro, da queste parti vive un tizio che suonava con lui ai tempi del Piper”.
E, per finire Marcello Bellacicco-Ass. FILONIDE di Taranto: “Don Backy lo ebbi a Taranto e gli feci anche un’intervista che dovrebbe stare in qualche angolo della rete :-))”.
Don Backy, dunque, come artista di successo, che l’Italia l’ha percorsa tutta, ma a lui saremmo giunte comunque, giacché ci interessa anche il suo valore di uomo, aderendo a ciò che ci insegna Albert Einstein: “Non cercare di diventare un uomo di successo, ma piuttosto un uomo di valore”.
Lui lo ha fatto.
Ne proponiamo una stringatissima selezione effettuata su youtube, segnalando anche la sua volontà di aver voluto affrontare temi duri (la follia) o altri superficialmente censurati, ma comunque giunti al successo grazie a altri artisti, come Mina.
Per una veduta di assieme sulle sue molteplici attività si consiglia di navigare leggendo le pagine di Wikipedia e, soprattutto, il suo sito.
Tra i tantissimi film dove si è disimpegnato: Il monaco di Monza, di Sergio Corbucci, Barbagia (la società del malessere), di Carlo Lizzani, Cani arrabbiati, di Mario Bava, Pane e tulipani di Silvio Soldini.
Don Backy: la sua arte – l’uomo
Scrivere: parole per musica da consumare in tre minuti o poco più… E per i libri? Differenze superabili con le scuole di scrittura creativa, l’Università, le instancabili letture? No, credo proprio no, se non c’è una istintività naturale, una propensione che si avverte inevitabile, non c’è università che tenga. Ci si accorge di poterlo fare, cominciando a scrivere fin dalla tenera età, poi, se son rose fioriranno, ma l’imprinting è precoce.
Lo anticipiamo: riteniamo le parole siano pezzi di cuore, non i figli. È giusta, o almeno vicino alla sua sensibilità, la nostra convinzione? C’è una canzone che sia per lei un pezzo di cuore, sincera fino a far odiare chi volesse appropriarsene? Assolutamente sì, ma non posso citarne una senza far torto a tutti gli altri pezzi che compongono il cuore, che non si completa mai in un artista e può diventare immenso grazie alle cose che fa. Io non sono capace di odiare che per folate reattive a torti. Ma vorrei che la giustizia provasse le ragioni di chi le ha e questo invece accade raramente purtroppo.
Pensieri che prendono forma sul foglio bianco con varie modalità. Ci sono segreti tecnici inconfessabili? È richiesta una sensibilità speciale per comunicare attraverso il fumetto? Sì, ho raccontato nei miei libri della prima volta, quando a sera constatai che da un foglio bianco erano saltate fuori delle creature, che per me erano vive e potevano parlare, cantare e muoversi così come avevo immaginato che dovessero fare. La sensibilità speciale non esiste, importante è avere un concetto preciso da esprimere e tanta volontà (cosa di cui sono dotato) oltre a una buona mano tecnica (cosa che io non ho).
La Scuola italiana di fumetto: ci dice qualche nome irrinunciabile? Al di là della scuola, di irrinunciabili cito semplicemente nell’ordine di preferenza: Hugo Pratt – Milo Manara.
E nel mondo? Mi piace il francese Lauzier e poi Alex Raymond e Milton Cannif, anche se ci sono altri straordinari disegnatori.
Lei cantò, era il 1978, nel Cilento, a Laurino. È rimasta nella mente traccia di quell’evento? Proprio in questo periodo sto scrivendo e pubblicando la mia storia e fotografica in 4 volumi. Vi ho raccontato momenti anche di concerti tenuti qua e là, ma sono talmente tanti ormai che difficile ricordarne specificamente qualcuno. Laurino mi è tornato in mente perché – sfogliando le agende sulle quali mi consulto e confronto – ho letto il nome, ma la circostanza è troppo lontana anche per me.
Don Backy attore: è utile andare a bottega o basta la mano di un regista di vaglia? Questa risposta può essere simile a quella data per i fumetti. Qualcuno dice “Faccio l’attore perché avrò modo di arricchirmi o di avere auto, belle case, donne”. Altri non sanno perché, ma il trasporto verso quella professione lo avvertono precocemente e istintivamente Non pensano al risultato pratico. E sono quelli più bravi.
Da dove nascono le sue competenze, la così potente voglia di comunicare, l’urgenza di farlo con molteplici forme d’Arte? Credo che la mia sia una forma di creatività istintiva, oltre al desiderio di confrontarmi con me stesso. C’è una massima che ho sempre tenuto presente ed è la mia stella polare, recita così: “Gli antichi non sapevano che quella cosa era impossibile da fare, pertanto … La fecero!”. Ecco spiegata la spinta che mi muove. Ho attraversato le varie esperienze (praticamente tutte), cinema, teatro, canzoni, letteratura, fumetti, unicamente con lo scopo di divertirmi e smentire tutti coloro che dicevano che quella cosa era impossibile da farsi. E penso di essermela cavata bene in tutte.
Vuole dire altro di sé, del Don Backy di oggi, che avrebbe voluto avessimo chiesto? Niente di particolare. Solo un cenno alle mie nuove produzioni: Ho appena pubblicato il terzo volume “Storia di altre strade” (1980/1990), della serie “Memorie di un Juke box”, che comprende “Questa è la storia… (1955/1969) “Storia di altre storie…” (1970/1980) Una vera e propria avventura attraverso 50 anni di musica leggera e non solo, corredata da fotografie, articoli, lettere, testi di canzoni, che completano questa piccola enciclopedia, che si legge come una favola. Oltre al mio nuovo cofanetto con video e CD, intitolato “50 anni di mestiere delle canzoni”. Il tutto ordinabile via web, attraverso il mio sito www.donbacky.it o www.ciliegiabianca.it. Visto che siamo nel periodo natalizio, faccio tanti auguri a tutti. Ciao, Don.
Come si può verificare in moltissimi libri e anche nel web, a esempio qui: Alfonso Toscano il Cilento ha pagato un prezzo altissimo alla emigrazione transoceanica. Ancora più alto, ma ciò appare meno problematico, a quello europeo che continua, inarrestabile. È soltanto una sensazione: spesso chi abbandona i paesi di origine è destinato a non rientrare e ciò accade soprattutto per i nuovi emigranti che, essendo cresciuti riuscendo a coltivare rapporti con persone che abitano altrove, magari solo virtuali, hanno avuto modo di staccarsi emotivamente, cosa ben più difficile per chi emigrava nei secoli precedenti.
In un articolo-intervista, su richiesta della giornalista Cinzia Ficco, una di noi, nel settembre 2009, cioè quando si parlava delle sommosse subite dalle banlieue francesi, raccontò la propria esperienza di insegnamento a Grenoble. Mettendoci anche la faccia. L’altra lo aveva fatto nel maggio precedente, narrando l’esperienza disimpegnata ad Ajaccio, la città che era stata italiana, dove nacque Napoleone Bonaparte, un anno dopo essere divenuta francese.
Non sapevamo quanto rilievo avrebbero potuto assumere: dal momento della pubblicazione ci hanno scritto davvero in tanti per avere ulteriori notizie su Grenoble e Ajaccio, con l’intento di trasferirsi. Continuano a giungerci mail del medesimo tenore. L’ultima, è stata appena riscontrata, proveniva da Teggiano. Ciò induce a una riflessione. Qualche mese fa ci giunse quella che in assoluto ha turbato di più, una che davvero ci toccò il cuore. A scrivere era E., un papà di Taranto, 43 anni. Lo faceva per il figlio D., 18 anni da compiere di lì a poco. La storia è sinteticamente questa: periodi di cassa integrazione; cambio di tre lavori; una famiglia da mantenere. Ciò induce il papà e la mamma di D. a consigliargli di andare via dall’Italia. Per non lasciarlo solo, perderlo, sarebbero andati via tutti. Avevano scelto di andare a Grenoble. La vicenda riecheggia il grido che alzò forte Eduardo: Fuit’venne!
In tutta franchezza: avremmo voluto poter dire: restate! È per questo, anche per questo, che prima o poi, andrebbe eretto un monumento a chi eroicamente resiste, a chi non va via. Tuttavia, non lo si può negare, sono sempre più i giovani a farlo, fosse anche solo per disimpegnare brevi periodi di lavoro all’estero. Per non dire di quanti aderiscono ai vari progetti ERASMUS, e non solo, che consentono di allargare il proprio orizzonte e di scegliere autonomamente altre soluzioni di vita, da svolgere fuori dall’Italia. Accade sistematicamente nel mondo artistico, nel teatro soprattutto. Non ci vediamo nulla di così drammatico; il problema, caso mai, è nell’esservi costretti per la carenza di opportunità a casa propria. La risposta a E. è stata: conviene verificare che cosa si possa fare a Grenoble; magari consideri pure Parigi e la Germania: è la nazione europea che offre più opportunità.
Il tema è serio e non si può demandare il senso del problema, la gravità, a una risposta del genere. È forte l’insoddisfazione e si spera le istituzioni vogliano affrontare il tema, insieme agli imprenditori illuminati, con più convinzione.
Illustrazioni:
– Immagine tratte da MADAME E ROSA LUX, drammaturgia dell’attrice e regista portoghese Paula Diogo e Linda Dalisi. Traduzione di Clelia Bettini. Paula Diogo ha lavorato con diversi artisti e compagnie dal Portogallo all’Italia, dal Regno Unito alla Francia. Ha debuttato al Teatro Nuovo di Napoli, direttore artistico Antonio Latella, il 5 novembre 2010. Le sue due messe in scena partono da un triangolo di anime inquiete: Rosa Luxemburg, Yukio Mishima e Madame de Sade, ognuno a suo modo in lotta con la realtà, alla ricerca di nuovi modi di esistere.
-emigrazione transoceanica; illustrazione di Frank Leslie.
(IL CORPO DELLE DONNE, scatto di Alessia e Michela Orlando)
Nel filmstatunitense Scandalo al sole (titolo originale A Summer Place), del 1959, diretto da Delmer Daves, soggetto tratto da un romanzo di Sloan Wilson, l’uomo d’affari Ken Jorgenson, insieme alla moglie Helen e alla figlia adolescente Molly, torna dopo circa vent’anni sulla Pine Island, al largo della costa del Maine, dove trascorreva le vacanze da ragazzo. Molly conosce il coetaneo Johnny Hunter, figlio di Bart e Sylvia. Questi due sono i proprietari dell’unico albergo dell’isola. Tra i giovani scocca la scintilla: si innamorano. Il problema è che tempo prima la stessa cosa era accaduta tra la madre di lui e il padre di lei. Ancora più problematico: i due, i genitori, scoprono di essere ancora innamorati. La situazione è destinata a precipitare; la cenere sotto cui ha covato l’amore, non può coprire il presente e le braci vengono scoperte. Tutto emerge alla luce del sole.
È in ciò lo scandalo cui allude il titolo.
Quanti oggi non metterebbero la firma per rivivere una situazione simile? E dove sarebbe lo scandalo? La conseguenza, nel film, è lo scioglimento del matrimonio. Oggi, tralasciando i profili religiosi, volendo rispettare le idee e le scelte di ognuno, si concorderebbe agevolmente sulla idea che non ci sia nulla di scandaloso in quella faccenda. Certo, è possibile, due ragazzi, due figli a loro volta innamorati, potrebbero essere almeno perplessi, ma non rimarrebbero traumatizzati da circostanze simili a quelle narrate nel film. È un film, questo, che si ricorda soprattutto per la colonna sonora composta da Max Steiner. Per dare un tocco di cilentanità, con lo scopo di addolcire la pillola, ovvero prima di motivare quanto sin qui letto, scegliamo questa versione:
Ci sarebbe anche la versione cantata da Miranda Martino: ci risulta molto amata nel Cilento-Vallo di Diano e i sessantenni ancora parlano di un suo concerto a Padula, dove si esibì davanti a decine di migliaia di persone insieme all’Equipe 84:
Esiste anche, addirittura, un video con la versione di Percy Faith, dove si possono ammirare i volti delle più belle attrici in assoluto nonché le nudità di Sophia Loren:
Le nudità! Perché? Perché il nudo non può essere considerato scandalo, non più, e non deve poter giustificare la violenza sessuale, così come mai più dovrebbe ritenersi scandalosi l’amore o l’attrazione tra corpi di esseri umani, trovandolo assolutamente in linea con il concetto di “normalità”. Lo è qualsiasi attrazione che porti alla tenerezza, alla voglia di essere in sintonia, se non ci sia prevalenza di una volontà su un’altra, se non ci sia sopraffazione, se non ci sia violenza, se non ci siano problemi di età (pedofilia). È contro la violenza che ci si schiera; è contro la violenza che occorre combattere, soprattutto quella in cui ci sia un maschio, o più di uno, che si scagliano contro un “oggetto” che sia di sesso femminile e non solo, giacché non è accettabile neppure l’idea del maschio, o più di uno, scagliato contro un altro maschio. Purtroppo accade anche questo.
Sarebbe inutile dire, forse, che qui si allude alla violenza sessuale accaduta a San Pietro al Tanagro (se ne dà conto in questo articolo), perpetrata da un settantenne su una tredicenne che, lo si ricorda a chi non lo sapesse, non potrebbe mai essere ritenuta consenziente, alla luce dell’ordinamento giuridico italiano.
(IL CORPO DELLE DONNE, scatto di Alessia e Michela Orlando)
Del piacere di raccontare la verità, anche la più atroce, di questo si deve trattare volendo approfondire il tema della violenza sulla donna, sugli omosessuali, sui bambini. Nel Codice di Hammurabi, re di Babilonia (2285-2242 a.C.), al rigo 129, si può leggere per la prima volta di stupro. Purtroppo non è esente da profili assolutamente inaccettabili, evidentemente sessisti: recita che se la vittima dell’aggressione era una donna coniugata, vittima e aggressore dovevano essere puniti allo stesso modo come adulteri, per mezzo di annegamento; il marito, se magnanimo, poteva perdonare la moglie. Al successivo rigo 130 si dettava che se la vittima era una giovane ancora non coniugata, va da sé come sia inevitabile dedurre che fosse vergine, si prevedeva la condanna a morte per il solo aggressore. Non erano, dunque, rilevanti le circostanze: tutto si incentrava sullo stupro, sulle condizioni anagrafiche e sullo stato civile della vittima. Una verità che non era difficile accertare.
Di contro, e più recentemente, il drammaturgo e poeta William Shakespeare, nel suo Re Lear, relativamente alle sofferenze umane fa dire a Edgardo: “Quando vediamo uomini a noi superiori che sopportano gli stessi nostri mali, non possiamo quasi più considerare nostre nemiche le nostre miserie. Chi soffre solo, soffre soprattutto nell’animo, lasciandosi alle spalle immagini di felicità e di gioia; ma lo spirito può sopportare molti dolori, quando si hanno compagni nel sopportare la nostra pena.”
In Otello, invece, quasi come una risposta, la voce di Iago echeggia: “Che eresia! Sono sette per quattro anni che medito sulle cose del mondo. E da quando ho imparato a distinguere un benefizio da un sopruso, non ho trovato un sol uomo che sapesse volersi bene.” E il Buffone, di nuovo nel Re Lear, irrompendo sul tema della verità, sbotta in un: “La verità è un cane da chiudere in canile.”
Sulla verità, sulle difficoltà che si incontrano nel suo di-svelare, dunque, hanno speso il loro tempo anche grandi letterati ed è certamente un tema tanto attuale quanto rilevante, sia sul piano sociale che individuale. Non mancano ragioni per dire quanto sia difficile rinvenirla e non manca neppure chi pensi che la verità non esista. Tuttavia, non può che svelarsi grazie a domande, a molte domande. E quelle giuste da porsi, affinché si possa almeno tentare di ricostruirla davvero tutta, o nella maggior misura possibile, non possono essere troppo pensate; forse non è opportuno neppure che siano troppo lunghe e articolate. È altresì necessario adottare un linguaggio esplicito.
La terminologia elegante e forbita sdrammatizza i fatti tragici e anche volendo raccontare in un romanzo della violenza sulle donne non bisognerebbe mai cadere nella trappola della voglia della bella parola per occultare, senza volerlo, la gravità. Nel narrare, dunque, qualora si tratti di violenza sessuale, non è l’atto del “defloráre” che si racconta. “Deflorare” è un termine che edulcora la gravità del fatto, ed è tanto antico quanto profondamente bello. Significa “togliere il fiore, il meglio” e ha il senso di “togliere a una donna la verginità”. Sul piano etico, per la violenza che si pretenderebbe narrare, sarebbe sempre da preferirsi il più pertinente il termine “stupro”. Occorre, dunque, avere il coraggio di guardare la realtà e anche i personaggi della narrativa dovrebbero averlo, sempre, e ciò non significa certo che siano ritornate le streghe. Potrebbe solo essere l’auspicabile inizio di un nuovo e più giusto Umanesimo.
Abbiamo vari debiti con gli scrittori più tecnologicamente avanzati al mondo: Paolo Franchini (http://paolofranchini.wordpress.com/) e Ugo Mazzotta (http://www.ugomazzotta.com/, dove è possibile anche scaricare gratuitamente alcuni suoi libri: http://www.ugomazzotta.com/ebook/ebook.html).
Con il primo in qualche modo abbiamo quasi saldato il conto “eliminandolo”: ucciso in un radiodramma dall’attore Mario Pirovano (è stato con Mistero buffo al teatro di Laurino). Dichiarato pubblicamente il debito di cui innanzi, sapendo che assumerli in tal modo ti costringe ad assolverli, resta, dunque, da ripagare Ugo Mazzotta che con Paolo è in cima alla lista degli scrittori da noi preferiti.
Ugo è anche sceneggiatore in programmi di Canale 5, “Ris-Delitti imperfetti”. Nel 2010 ha sceneggiato l’episodio “Il passato ritorna”. È per tutto ciò che abbiamo deciso di ucciderlo. È il suo destino, è ciò che lo attende in un nostro giallo e della minaccia Ugo sa molto bene.
Purtroppo per lui non potrà difendersi, non potrà evitare quel che è già accaduto. Nel nostro giallo, come gli accade nella vita reale, egli è: rilevante testimone di omicidi e medico legale che interviene sul corpo di una donna trovata discinta, ormai cadavere.
Tutto accade nel Cilento, sul Sacro Monte, dove si è recata una donna che non riesce a rimanere incinta. Ella si trova tra le due rocce a cui la credenza popolare attribuisce la capacità di risolvere problemi connessi alla incapacità di procreare. Lei, la poverina, non sa che è incinta. Quel che succede in quel posto è atroce.
In attesa che l’evento sia reso pubblico, diamo visibilità alla sua intervista, evidenziando che, pur essendo coetanei, lui ci distanzia anni luce anche sul piano del sense of humor.
La introduciamo segnalando il nostro ultimo colloquio, in cui abbiamo parlato del suo personaggio: il commissario Prisco. Noi: A proposito di Prisco: mica il nome nasce dallo scrittore Prisco…
Lui: No, no. Nasce da circostanze… geografiche. Quando ho iniziato a scrivere il primo romanzo, dieci anni fa, frequentavo per motivi professionali la zona del casertano. Un pomeriggio ero in macchina e pensavo al nome da dare al mio commissario quando mi capitò sott’occhi un cartello stradale che indicava la via per il comune di “Caturano”. Mi piacque e decisi che il commissario si sarebbe chiamato così. Qualche giorno dopo ero sulla stessa strada e rimuginavo sul fatto che il “commissario Caturano” somigliava un po’ troppo, per assonanza, al “commissario Montalbano” (al quale sapevo di dovere molto anche come impostazione del romanzo). Dopo un po’ passai davanti al cartello indicatore del comune di San Prisco, e il commissario fu ribattezzato. Il nome di battesimo, Andrea, gli rimase come omaggio a Camilleri. Quando poi qualche anno dopo ho affibbiato al commissario una spalla femminile, le ho dato il cognome che avrebbe dovuto avere il commissario stesso, così è nata l’ispettore Alice Caturano (che col tempo è cresciuta, fino a diventare lei la protagonista del mio ultimo romanzo, il primo senza il commissario Prisco).
Avvertenza finale: la ragione per la quale nell’intervista che segue diamo il tu a Ugo Mazzotta è nel fatto che siamo più o meno coetanei: noi due, ventiseienni, assieme, come egli stesso ci ha segnalato, raggiungiamo la sua età. Le differenze: come detto, assieme a Paolo Franchini, è lo scrittore più tecnologicamente avanzato che abbiamo mai conosciuto, mentre noi ci arrotiamo intorno ai tasti della tastiera che più volte si è salvata per miracolo dal lancio contro un muro.
D: Ti faremmo poche domande per un articolo-finestra che dia accesso e diffusione al tuo sito. Vorremmo il tutto fosse divertente, chiaramente, ma anche dare modo ai lettori di poter leggere i tuoi libri. R: Divertente non so se riuscirò a esserlo, non è facile. Serio di certo no.
D: Meglio sciacquarsi nelle acque di Napoli, dell’isola Mauritius o del Cilento? R: Le acque di Napoli sono, ahimè, raramente avvicinabili, spesso corrosive da quanto sono inquinate. Quelle di Mauritius non le conosco ma, a meno di essere magnati del petrolio o ex presidenti del consiglio, trovo che eleggere ad “acqua di riferimento” un mare nel quale bene che vada ci si potrà tuffare una volta all’anno e per pochi giorni sia un’opzione perdente. Il Cilento invece lo conosco abbastanza bene e nelle sue acque mi immergo spesso. Decisamente la scelta migliore.
D: L’italiano, invece, dove lo sciacqua Ugo Mazzotta? R: Ho origini multidialettali: mio padre pugliese, mia madre sarda, nato e vissuto a Napoli, la conseguenza è stata che attorno a me nei primi anni di vita ho sentito parlare solo l’italiano e il dialetto l’ho imparato più tardi, come una lingua. Aggiungete che la trasmissione televisiva che più amavo da bambino (parlo del 1960) era “Non è mai troppo tardi”, le lezioni dell’indimenticabile Maestro Manzi agli allora tanti analfabeti. Arrivai in prima elementare a cinque anni che sapevo già scrivere. Da allora ho letto tanto e di tutto – narrativa e basta, poca poesia, niente saggi – e ancora adesso non ho un mio Arno particolare nel quale andare a sciacquare i panni. Ho avuto una bibbia linguistica che ancora adesso consulto di tanto in tanto, un divertentissimo libro scritto dall’italianista Luciano Satta circa quarant’anni fa, si chiamava “Come si dice”.
D: Dove va in vacanza il Commissario Prisco? R: Finora non ha mai fatto molte vacanze. Credo che la sua vacanza preferita sarebbe un viaggio in moto, evitando accuratamente le autostrade, in giro pèr l’Europa alla ricerca di borghi accoglienti, città d’arte e posti in cui la natura è stata rispettata.
D: Cosa leggono i due… R: Penso di poter parlare a nome di entrambi. Leggiamo tutto ciò che ci incuriosisce; romanzi, quasi esclusivamente, che abbiano storie ben costruite e personaggi credibili. Citando dal mio sito: “King, Christie e Simenon, e ancora Eduardo, Vian, Calvino, Pavese, Bulgakov… gente che ha scritto cose con cui magari era difficile essere d’accordo, come Guareschi e Wodehouse, ma accidenti se sapeva scriverle! E ancora, i maestri del giallo italiano: Veraldi, Scerbanenco, Fruttero e Lucentini, Olivieri…”
D: E Prisco che ne pensa dei briganti cilentani? R: Prisco non si è mai documentato abbastanza al riguardo e non ama esprimere giudizi su cose che non conosce. Però sa che la storia è spesso il racconto delle vicende umane viste dalla parte di chi ha vinto; e ha sentito dire che il regno delle Due Sicilie era, prima dell’unità d’Italia, uno degli stati più ricchi d’Europa. Ricchezza che ovviamente fioriva nelle casse e nelle tasche di pochi e non certo del popolo meridionale, ma che spiega l’ansia sabauda di liberare il Mezzogiorno d’Italia (l’esportazione della democrazia in punta di baionetta non l’ha inventata Bush). Tutto ciò spinge Prisco a desiderare di leggere qualcosa riguardo il brigantaggio meridionale, qualcosa che non sia troppo schierato e gli dia la possibilità di imparare.
D: Dove si potrebbe far morire Prisco, sapendo che gradirebbe? Dire anche i perché: Camerota, Palinuro, Sapri, Padula … R: So per certo che Prisco non ha alcuna intenzione di imboccare il tunnel con la luce bianca in fondo, non per parecchie decine d’anni ancora almeno. Diciamo che proprio dovendo – e facendo tutti gli scongiuri leciti e meno leciti – gli piacerebbe che succedesse lungo la strada che da San Giovanni a Piro porta a Lentiscosa. Ci sono punti in cui la strada di montagna offre improvvise vertigini su un mare di un azzurro surreale, dove non gli dispiacerebbe essere sepolto.
Quando scoprimmo la casa editrice EDIZIONI NOUBS impiegammo poco a comprendere che poteva piacerci una casa editrice il cui nome alludeva alle spine: ricordavamo una caduta rovinosa sui ricci in un castagneto. Avevamo quattro anni. Ci sembrava di essere in un bosco fitto, in cui poteva accadere di perdersi, di incontrare Biancaneve e i sette nani, di incontrare il lupo, di dover aiutare Pollicino, di saltare insieme al gatto con gli stivali. Per due anni non ritornammo più in quel luogo: località Granara, limitrofa a località Levatino, nel cuore del Cilento, in un bosco di Laurino. I castagni, li abbiamo contati di recente: erano solo quattro e il bosco effettivamente era fitto, fitto, impenetrabile. Cademmo vicino a una sorgente. C’è ancora. Tutto sommato, non fu male capire che è meglio stare lontano dalle spine. Divenne una fissazione; non abbiamo dimenticato l’ago utilizzato per toglierci i residui dei ricci dai polsi, dalle mani, dalle ginocchia; d’altronde, chi non ha le proprie fissazioni? Forse che Mario Martone riuscì a esimersi dall’uso delle forbici nei suoi interventi autoriali teatrali, essendo figlio di un sarto? Certo, non siamo Mario Martone, l’autore dell’ottimo film cilentano, sentito fin nella pelle, NOI CREDEVAMO, ma dovendo scegliere metteremmo le spine dappertutto.
E, leggendo in CHI SIAMO di NOUBS, http://nuke.noubs.it/, imparammo: “Le Edizioni Noubs nascono da un’idea bifronte di Lorenzo Leporati e Massimo Pamio che aprirono a caso la pagina di un libro di Elémire Zolla in cui si leggeva: “Osiride che sta all’ombra del noubs, l’albero che regge l’universo. Si intende, va detto per non deludere gli specialisti, che noubs designa in copto anche un allucinogeno. Gli egittologi hanno menzionato come corrispettivo del noubs la ziziphus spina Christi, usata per incoronare la testa del Cristo di spine, ma noubs designa anche l’oro”. In realtà nbs, come scrive Baum Nathalie, ha una storia che attraversa tutto l’Egitto antico. Arbusto semprevivo alto da 4 a 10 metri, si estende dall’Africa centrale e meridionale fino all’India. All’inaugurazione delle edizioni Noubs, oltre tre lustri orsono, partecipò Mario Luzi. Al momento di ripartire in stazione, perse il treno. Per tanto, lo accompagnammo in auto fino a Bologna. Eravamo emozionati e anche schiacciati dal compito di accudire il più grande poeta italiano: se gli accadeva qualcosa ne saremmo stati responsabili davanti alla Nazione intera. Lo legammo alla cintura di sicurezza, con tutto l’impermeabile addosso. A un autogrill scendemmo per un breve ristoro. Ci accorgemmo di aver perso il poeta di vista. Lo chiamammo, nessuna risposta. Preoccupati, ci recammo di corsa in tutti i posti della piazzola, niente. Non si trovava. Ci recammo stravolti perfino al bagno. Davanti a un vespasiano, il Poeta era serenamente intento alla minzione Stremati, ancora impauriti, non potemmo fare a meno di rimproverarlo bonariamente: “Maestro!” Egli si voltò, ancora intento alla funzione fisiologica. Mirabile visione. Caro Maestro, Le chiediamo perdono, ma ci piace ricordarLa così, come un dio davanti ai rappresentanti del noubs, mentre li innaffiava in segno di augurio.” MARIO LUZI! Come dire LA POESIA tout court. È tutta qui la ragione per la quale abbiamo spedito loro innumerevoli mail, chissà quanti racconti e facezie varie… Fotografie comprese. Inutile nascondere, però, che, al di là di tutto, ci hanno sempre colpito i temi da loro scelti. Eccone un paio (ma siamo certe che a breve si parlerà moltissimo di un altro tema) che illustriamo anche con quel che si trova nel loro sito: http://nuke.noubs.it/Chisiamo/tabid/468/Default.aspx. “Facce da curriculum” e “Il primo giorno di lavoro”: il secondo è un momento fatto di timori, sogni, illusioni, paradossi, difficoltà, assurdità. Un momento atteso, bramato da giovani o da neo disoccupati in età avanzata, magari neanche troppo sperato; un giorno in cui tutto quel che si ha in testa, tutto quel che si è appreso e sudato o aspettato per anni in barba a titoli di studio, esperienze non retribuite o ruoli agognati, si scontra con la realtà. Quella del mondo del lavoro oggi… Il concorso in oggetto, è la parte conclusiva di un progetto partito ormai diversi mesi fa, nato con il bando “Facce da curriculum” in cui, dati i volti di due persone (un uomo e una donna come tanti), si chiedeva agli autori partecipanti di immaginarne un curriculum vitae con tanto di attitudini, studi effettuati, nome e cognome, interessi, aspirazioni, estrazione sociale, ecc., ma non è tutto. Agli stessi autori la richiesta di realizzare anche una lettera di presentazione nonché, come da buon costume italiano, una lettera di raccomandazione. Ciò che ne è risultato, con il materiale selezionato, risponde a un quadro vario, fantasioso e grottesco, reale e incredibile della situazione dei lavoratori di oggi. Un assurdo divertente e al contempo tagliente che diviene un vero specchio del Bel Paese e di chi lo vive. Per “Il primo giorno di lavoro” la scadenza per l’invio dei racconti era fissata per il 15 dicembre 2009. La lunghezza doveva essere compresa tra le 5 e le 10 cartelle (1800 battute spazi inclusi a cartella). Tutto il materiale andava inviato a concorsi@noubs.it specificando nell’oggetto “IL PRIMO GIORNO DI LAVORO” e riportando tutti dati personali e i contatti. La partecipazione, al solito per NOUBS, gratuita. Importante: nello spirito delle Edizioni Noubs, pervicace nel voler continuare a ispirarsi all’attualità attraverso un sorriso amaro e un momento in più di riflessione, era richiesta una vena pungente, indagatoria, pulsante… anche accusatoria di un mondo sempre più difficile. Si è giunti, come ci ha comunicato EDIZIONI NOUBS attraverso la penna di CLAUDO COMANDINI, alla fase che precede la pubblicazione e poi a quella della pubblicazione in cui, ormai è noto, ci sono contributi e confronti con esponenti di rilievo del mondo del lavoro e dell’economia, prefazione di Susanna Camusso e Ascanio Celestini, nonché i testi vincitori del concorso “Facce da curriculum” e le nuove penne per “Il primo giorno di lavoro”. VINCITORI “FACCE DA CURRICULUM” ADELMO MONACHESE AGNESE MONACO DENIA DI GIACOMO ENRICO FARAONI FABRIZIO BINI GIANLUCA BEDINI GIULIA RINOTTI IVAN DI MARCO LARA FONTANA LUDOVICA MAZZUCCATO LUIGI BRASILI MARIA LUISA MARICCHIOLO MAURIZIO SIGNORELLI RICCARDO MAGGI SIMONA MARTINI STEFANO FACCINI VINCITORI “PRIMO GIORNO DI LAVORO” ALESSANDRA FORTINI ALESSANDRO PETRINI ALESSIA ORLANDO ANGELA ELIA ANTONIO SECONDO DANIELE LOMBARDI DOMENICO COSENTINO EMANUELA TUMIATTI ENRICO ARLANDINI FRANCESCA LEVO CALVI GIULIA EVOLVI GIUSEPPE DELFINO LARA FONTANA MARTINA PUGNO MARZIA CIKADA PIERO MARIELLA SILVIA SANNA STEFANO CATINI VALENTINA PETRETT
Per quanto il mondo patrigno ti sia stato, avaro di ricchezze da forziere, benigna la natura ti ha donato bellezze di paesaggi, e buoni frutti, e caldi aromi, e intelligenze fini.
E in chiare acque azzurre puoi specchiarti, coi borghi e le scogliere, e Sapri canta la breve vita dei trecento eroi.
In seno serbi tradizioni antiche, e non ti lasci trasportar dal vento, ma quieto segui il tempo, e non l’avanzi, aperto al sole, e al volto umano delle umane cose.
Dello sbarco ancor le rimembranze rinnovan la tragedia e la paura e portano fantasmi bruciacchiati…
Agropoli, Pisciotta, Palinuro… e Camerota che è incontaminata nella montagna sua e nel suo mare, dove d’Enea si ammainò la vela, e il Vallo di Diano, nel Parco (che dal tuo nome prende il nome suo), son vere meraviglie, e generoso con la modestia innata di chi è grande, al mondo offri e al mondo ti spalanchi bramoso del calore della gente, di idee, culture, di poesia e d’arte, tant’è che al fiume tuo che le trasporta, hai dato proprio il nome di Calore.
A Eboli, che lì al Cilento è presso, Cristo s’è fermato…han detto…Ma ha lasciato per chi voglia afferrarla, la staffetta…
E Alessia con Michela, l’han raccolta.
Armando Bettozzi
15 Novembre 2011
LA POETICA DI ARMANDO BETTOZZI, IL CILENTO E NOI Il 22 marzo 2011, quando entrammo nel museo “Carlo Levi”, Università Sapienza, Dipartimento di Chimica, Roma, i nostri 15 scatti della mostra CONTRASTI: http://www.youtube.com/watch?v=zqqDGPELdj4
erano sotto lo sguardo attento di studenti universitari e di un Liceo. Facemmo in tempo a stringere la mano al dr. Andrea Macchia, specialista in conservazione dei Beni Culturali, che aveva curato la installazione, e al Prof. Luigi Campanella che il Museo lo dirige; fummo, poi, salutate da Armando Bettozzi, il poeta Armando Bettozzi. C’era stato uno scambio di mail e, da parte nostra, l’invito a esserci, giacché le fotografie utilizzate nella presentazione avevano tutte un impianto poetico e le didascalie erano chiaramente dominate da quella forma letteraria negletta in Italia. Non avremmo pensato che davvero venisse, non lo conoscevamo di persona. Non avremmo mai pensato che potesse sorgere un rapporto segnato da una “presenza” costante, seppure tramite mail. Ci pare giusto segnalare che non si ha nessun merito quando una sensibilità straordinaria, quella di un Poeta, si concede con la parola e con la presenza fisica, soprattutto se si pensi che i temi Universali da loro affrontati sono infiniti e analizzabili da molteplici profili. Ciò richiede molto tempo. Nell’interesse del Cilento, per contribuire a dargli sempre più visibilità in ambienti che sappiano porsi in sintonia e tutelarlo, avevamo pregato Armando Bettozzi di scrivere una lirica, qualora dagli articoli letti nel Giornale del Cilento avesse tratto ispirazione. Lo ha fatto e ci ha creato non pochi imbarazzi. Ci pare necessario dare visibilità a ciò che scrive, alla sua idea di Cilento, ma dobbiamo evidenziare che crediamo di non essere all’altezza di fare ciò che dice in conclusione della sua lirica.
CHI È ARMANDO BETTOZZI Nato a Bettona, un affascinante borgo medioevale nei pressi di Assisi, vive a Roma con la famiglia. Poeta e musicista, scrive poesie e sonetti sia in romanesco che in lingua; si occupa anche di testi e musica per canzoni. Presente assiduamente in salotti romani di poesia. Una sua «Ave Maria» viene suonata in concerti di “musica seria”. Spesso ospite della TV romana Canale 23, ex Teletuscolo. Le sue opere sono pubblicate in varie riviste culturali, periodici, antologie e siti web. In concorsi nazionali/internazionali ha ottenuto una infinità di riconoscimenti e qualsiasi biografia pubblicata nel web è immediatamente superata da ulteriori e più recenti riconoscimenti. Segnaliamo: Primi Premi: Bassiano, LT, “Premio Città di Bassiano”, 2006; Tivoli, RM, “San Vincenzo”, 2006 (per il Lazio); Montieri, GR, “Città di Montieri – Circolo Mario Luzi”, 2007; Mattinata, FG, Primo Premio Assoluto “Liberarte”, (vernacolo romano), 2008; Terassini, PA, Primo Premio Assoluto “Poesie in barca a vela”, 2009. Alcune sue poesie sono state tradotte in Romeno. Altre, tra cui “Il Fiore” e “Il Picchio picchiato” sono state più volte lette in programmi culturali di alcune stazioni radiofoniche tosco-liguri. È considerato il Poeta dell’IFAD (Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo), organizzazione presso la quale lavora. Una sua poesia a questa dedicata è stata pubblicata in un documento ufficiale e menzionata durante un congresso internazionale. Una sua originale produzione poetica è la raccolta delle diciassette poesie dedicate a ciascuno degli altrettanti paesi dei Monti Lepini, scritte nell’estate del 2004 (sul sito www.prossedi.net è on-line quella dedicata a questo paese, stampata anche in una sua cartolina).
Per comprendere meglio il fenomeno del brigantaggio post-unitario e spiegare fenomeni atroci, come quello patito dai fratelli Capozzolo, cilentani di Monteforte, conviene accedere ai documenti dell’epoca e alle cronache sia dei giornali che dei protagonisti. C’è un libro che in qualche modo dà conto di questa impostazione: IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, Aldo De Jaco, Editori Riuniti. È in libro da salvare, che si distingue tra una massa enorme di materiale. Dalla seconda e dalla terza di copertina: «Negli anni ’60 del secolo scorso nel Mezzogiorno italiano c’era una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincee e retrovie. Dei due eserciti quello “vero”, con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino, se ne stava di presidio nei paesi, isolato come fosse nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e, quasi sempre, un figlio o un fratello fra le montagne a tener testa agli “invasori”. Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche “reazione agraria” di qualche “ribellione borbonica” e accorreva di zona in zona, sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte. Dai boschi e dalle montagne scendeva allora ad affrontarlo l’esercito silenzioso dei briganti. Nei paesi intanto si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto, i saccheggi delle case dei “galantuomini”, si instauravano effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all’esiliato Borbone. Tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri, uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, dai vestiti fatti di pelli. […] Questa “guerra” durò per circa cinque anni; difficile dire il giorno in cui essa cessò del tutto giacché, naturalmente, non fu firmato alcun armistizio. Si può dire che finì quando nelle selve incendiate e semidistrutte a colpi di cannone non rimasero che poche decine di banditi mentre nelle carceri o a domicilio coatto migliaia di contadini d’Abruzzo, di Puglia, di Terra di Lavoro, di Basilicata, di Calabria, incominciavano a scontare le loro condanne […]. Lo Stato appena sorto impegnò nella repressione dei “reazionari” metà del suo esercito, circa 120.000 uomini. Il destino del contadino meridionale si delineava ormai nell’alternativa indicata da Francesco Saverio Nitti: o brigante o emigrante.»
Tutto si fonda su documenti. Prima, però, c’è l’Introduzione; prima ancora c’è l’Indice; prima ancora c’è ROCCO SCOTELLARO:
Non gridatemi dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
Che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il vostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
Le teste dei briganti, e la caverna,
l’oasi verde della triste speranza,
lindo conserva un guanciale di pietra.
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
Dalle paglie delle cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
E forse si potrà pensare che la forza da Rocco impressa a certe immagini serva a dare corpo, drammaticità, a una storia che fu appunto tale, drammatica, dal primo attimo fino alla fine. Fino alla fine di tutto. Non è così. Si parla di storia, dunque di documenti e testimonianze inconfutabili; si parla di corpi bruciati, smembrati, mangiati addirittura; di teste tagliate e lasciate infilzate nei pali, al sole, quale pasto sanguinolente per le mosche. Un esempio furono le tre teste dei fratelli Capozzolo: Donato, Patrizio, Domenico. Ne dà conto anche Rosario Villari in: Il Risorgimento: I Capozzoli erano nel frattempo tornati nel Cilento, dove sembrava che le acque si fossero calmate. Ma su di loro era stata emessa una taglia, e il 17 giugno 1829 furono traditi da un amico, che durante una festa di nozze ne denunciò la presenza alla polizia. Circondati da 60 gendarmi borbonici, tentarono una strenua resistenza, ma alla fine furono costretti ad arrendersi. Il 27 giugno fu eseguita anche per loro la condanna capitale. Ma l’orrore non aveva ancora fine: le loro teste mozzate furono infatti esposte nella pubblica piazza, come monito eloquente, e lì rimasero fino al 1860. Il colonnello del Carretto, invece, fu premiato dal re Francesco I per aver represso il moto e punito gli insorti, con la promozione a generale e la croce di cavaliere.
È necessario chiedersi chi davvero fossero i fratelli Capozzolo, per meglio comprendere i contorni del dramma e i risvolti politici. Non erano i classici cafoni, bensì ricchi possidenti di Monteforte. Erano sfuggiti alla polizia borbonica dopo il rientro di Ferdinando e vivevano alla macchia sui monti con tanti altri disperati. Era gente che poteva vivere nella prosperità, ma, convinti nella loro idea liberale, lottavano per una Costituzione, quella di Francia. La si ottenne: era il 28 giugno del 1828 e dal villaggio di Bosco si diede il La a un processo rivoluzionario. A pronunciare parole di incitazione, nella chiesa del villaggio, fu il canonico DE LUCA. FRANCESCO I, appena seppe della rivolta, conferì l’incarico di reprimerla, con pieni poteri, al colonnello siciliano FRANCESCO SAVERIO del CARRETTO, comandante supremo della gendarmeria. Questi giunse con un buon nucleo di soldati nella provincia insorta e intervenne prima che i sollevati potessero organizzare qualsiasi difesa. I villaggi che avevano innalzato il vessillo della rivolta furono distrutti. Bosco, fu oggetto di una cancellazione anche geografica, come emerge dal decreto che lo stabilì: “soppressione del comune di Bosco nel circondario di Cammarota. Il suo nome sarà cancellato dall’albo dei Comuni del Regno. Gli abitanti potranno fissare il loro domicilio o in San Giovanni in Piro o dovunque a loro piaccia; ma né loro né altri non potranno mai ricostruire più le abitazioni che formavano l’aggregato di quel Comune, né in quel sito ove esisteva, né in nessun altro luogo anche se antico“.
L’incipit della Introduzione di IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE:
Il castello di Lagopesole è deserto. Il cortile è un pozzo d’ombra protetto da alte mura; fuori la luce accecante del sole disfa le linee dei colli intorno, la grande vallata, i grumi di case contadine ai crocicchi delle strade. Il castello è un cubo di pietra spoglia, in cima al colle più alto; intorno, come un collare, ha una decina di casupole ammucchiate fra i sassi. Un incerto scalpellino ha tracciato sulla pietra del portale due file di lettere:
negando la verità/ si hanno dispiaceri
e ancora:
Dio precettò / dire la verità per avere giustizia.
La verità. Eccola: Sul Corriere lucano del 6 giugno 1861 questo posto era indicato come il covo principale dei «briganti reazionari». «In nome di Dio – diceva il giornale – ricordiamo alle nostre autorità civili e militari l’importanza terribile del castello di Lagopesole. Qui è il covo dei briganti i quali devono trovare tanto di protezione colà, presso quelle capanne, in quanto che ivi abita la famiglia del famigerato Ninco Nanco…».
(…) Questi sono i fatti; ma la verità, qual è la verità? Chi erano, cosa volevano, perché combattevano i «briganti» di Lagopesole? Anche dopo cento anni, girando per le casupole di Lagopesole, si rinvengono due verità. Quella vera, lentamente, si afferma ed emerge da questo bellissimo libro. Anche dalle illustrazioni allegate dopo la fine delle 351 pagine di testo. Si inizia dal volto del capobrigante Carmine Crocco Donatelli; si passa attraverso documenti in fotocopia; un foglio di un cantastorie fiorentino, in cui si narra della vita e della morte del brigante Chiavone; la “legge Pica” promulgata il 15 agosto 1863, con cui si mise a ferro e fuoco il sud, si dispose la repressione di massa e i processi in tribunale militare; il corpo e l’elegante postura di Michelina De Cesare (la si vede anche nuda, appena uccisa), compagna di Francesco Guerra, armata fino ai denti, per finire con il volto severo di Pasquale Villari.
Questo è il contesto che ha fatto dire a Antonio Gramsci: Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.
Lo stesso che a Carmine Crocco Donatelli aveva fatto già dire: E intorno a noi il timore e la complicità di un popolo. Quel popolo che disprezzato da regi funzionari ed infidi piemontesi sentiva forte sulla pelle che a noi era negato ogni diritto, anche la dignità di uomini. E chi poteva vendicarli se non noi, accomunati dallo stesso destino? Cafoni anche noi, non più disposti a chinare il capo. Calpestati, come l’erba dagli zoccoli dei cavalli, calpestati ci vendicammo. Molti, molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni. Le loro rivoluzioni. Ma libertà non è cambiare padrone. Non è parola vana ed astratta. È dire senza timore, È MIO, e sentire forte il possesso di qualcosa, a cominciare dall’anima. È vivere di ciò che si ama. Vento forte ed impetuoso, in ogni generazione rinasce. Così è stato, e così sempre sarà…
Carmine Crocco, detto Donatelli o anche Donatello, ostinatamente fatto entrare nell’immaginario collettivo quale figura brigantesca di truce intensità, fu in realtà un RIVOLUZIONARIO e ambientalista italiano. Dirlo subito serve a manifestare l’intenzione di ridefinire la dimensione in cui normalmente ci si imbatte, quella di brigante, appunto, che è così carica di significati negativi immeritati, così fuorviante, che adottarla anche qui danneggerebbe la storia, quella della Terra, dell’intera area geografica che vide quale protagonista il fenomeno. Quella terra c’è tuttora, esiste ancora, sia fisicamente che nella mente di chi nacque successivamente (molti discendenti, hanno potuto nascere giacché i loro avi fuggirono; a tanto furono costretti, non di emigrazione spontanea si trattò). Quel che accadde dopo l’Unificazione italiana è storia negletta, ed è risaputo come non si legga solo perché, come sempre, a scriverla furono i vincitori: moltissimi lucani, tra questi i cilentani, calabresi, campani, laziali, abruzzesi, pugliesi, costretti a fuggire per evitare il plotone di esecuzione, regalarono alle Terre che li accolsero cervelli acuti, energie e desideri giovanili. Carmine Donatelli Crocco fu tra i pochi che sapesse scrivere, e lo fece con straordinarie capacità narrative. Certo, chi pensasse di trovare nella sua prosa la concisione, il rispetto di regole grammaticale, l’assenza di strafalcioni, come la e accentata erroneamente, la punteggiatura in sintonia con il respiro, sarebbe deluso. Non è lì, in queste carenze, la fonte di una inutile delusione; dovrebbe essere altrove: nella perdita definitiva di una ricchezza umana straordinaria. Quel popolo che fuggì era la parte migliore del Paese. Non ritornerà mai più, così come la natura impone. E la natura, stavolta ci si riferisce all’ambiente e all’uomo, nelle parole di Carmine Crocco c’è sempre; in ogni sua evoluzione narrativa emerge la linfa vitale, ciò che scorreva nelle vene, in quel sangue riversato a ettolitri, in quella carne mangiata dalle mosche, umiliata, vilipesa: quante volte i briganti vennero trucidati e messi in posa per fare emergere impossibili volti cattivi, arcigni, pronti a uccidere con quegli inutili fucili stretti al petto, senza che il cuore battesse più? Infinite volte: i libri ne sono pieni di quelle immagini truculente, da brividi, oscene per tutto ciò che avrebbero dovuto celare, far dimenticare.Nelle pagine del libro MEMORIE in cui si racconta del brigante Coppa e di Ninco Nanco, Pianetalibro-2001, si narra di un rito funebre e si evidenzia il ruolo di Madre Terra che accoglie il “brigante” Giovanni Coppa. Si arriva alla sua tumulazione attraverso il racconto degli ultimi scampoli di vita e la sua figura umana emerge anche nelle parole intrise di pietà che Crocco seppe tirare fuori dalla sua presunta rudezza.
Dalla INTRODUZIONE di Costantino Conte si rileva come il libro vibri della eco di riti ancestrali che richiamano alla mente i rituali di seppellimento adottati dai guerrieri dell’antichità. Non furono anche quelli degli indiani di America? E non vi è forse stato un medesimo destino: la reclusione in riserve e l’eccidio? Leggiamo: “…Coppa Giovanni avuto i due colpi cadde, ma poi alzatosi ratto e con una fucilata fa saltare il cranio allo avversario, che stava infilante le spoletto al suo fucile fasciò, i 28 compagni piansero l’uno è l’altro dopo aver soccorso il Coppa colla speranza di poterlo salvare, e niente disse lui e niente datemi un poco di acqua, ed è niente bevette quindi pregò di accompagnarlo da me, cui fecero con tanta esattezza. Il giorno dopo, cioè sul fare del giorno. La compagnia, gli feci sentire raccomandare il fatto come era successo, è udita la fine dissi colla testa si, domandate se volete vendetta da qualche suo Compagno, raddoppiò il no, no, colla testa, finalmente alla stessora dopo 24 ora che aveva ricevuto i due colpi. Spirò quando vido che il polso non dava più battito, subito gli strappai tutt’i panni lo chiuso bene gli occhi lavai bene bene il cadavero, taffettai bene le ferite, asciucato bene gli posi una cammiccia di lino motente e calzette una scolla di seta incanna, gli pettinai bene i capelli, e lo poso sopra una coverta unaltra sopra lo Lasciai dormire…La notte scelso il luogo, desegnai la fossa e sei dei suoi più fidi cavarono alla profondità di 8 palmi in fosso in cui dovevo tumulare il compariello di mio padre il figlio della mala femmina, alla quale col mio debbole e rozzo scritto chiamo a vedere suo figlio… Appena fatto giorno prendemmo nuovamente a contemplare il cadavero egli dormiva perfettamente, lo prendemmo bello bello, e lo ponemmo all’impiedi si reggeva perfettamente. Cammina Giovannino, Cammina meco all’ultima tua baronia, la tua fortuna è bella ed assicurata, non temere più, tutto hai pagato, vi resta solo il debito colla madre antica, viene da essa. La quale pietosamente v’aspetta. E prendendolo senza farlo smovere lo portammo alla preparata fossa. Quivi giunte lo ravvolgemmo in due coverte e il calammo giù poi fatti a pezzi tutte le sue arme, compresi gli speroni, ed il morso della briglia del suo cavallo, lo coprimmo di terra facendo scomparire ogni menoma traccia…”
E Crocco dirà poi: “In tutto questo scritto parlerò per voi misiri figli della miseria. Sappiate che per noi nessuno scrittore sprega inchiostro e carta, i nostri malanni, la nostra miseria, gli abusi, l’ingiustizia, che ci fanno, nessuno la scrive, mentre poi sono chiamati sommo scrittori, quelli che ci dispreggiano chiamandoci plebaglia, Miserabile, vermi, ed altri dispreggi che ci fanni comparire tanti schifosi animale, portano poi all’infenito le drute, le ruffiane, i traditori, ed altri che non torno dirgli, non pensate a questi lasciateli chiacchierare, essi hanno le loro spine, la poca felicità sta nella onesta ed è questo quello che io mi dedica farvi sapere, onde non cadere nella trappola dove sono io ed altri per colpa di scellerati ed infami uomini…” Finirà, poi, quasi con un appello alla ubbidienza per evitare mali peggiori. È evidente come Crocco sia in carcere e come non sia libero di dire tutto ciò che pensa: l’appello sembra quasi una mesta resa, a perseverare nell’atteggiamento tipico che viene attribuito al meridionale, ovvero la voglia di quieto vivere contadino.
Le memorie di Crocco, contenute in un manoscritto, furono poi raccolte da Francesco Cascella con il titolo: Le rovine del Brigantaggio dell’anno 1860, nelle province meridionale del Regno d’Italia, Scritto dal Capo Banda, CARMINE DONATELLO CROCCO, recluso nel Bagno penale s. Stefano.
Nel 1743 i raccolti nel Cilento, come nel resto del Regno di Napoli, si dimezzarono. È, questo, un tema non nuovo, va da sé, eppure suscita ancora divisioni, giustifica dibattiti. Come mai accadde? Si poteva prevedere? Quali le soluzioni possibili? Appare anche ovvio come nulla vi sia di nuovo sotto il sole, se è vero che qui e lì ogni tanto ci aggrediscono calamità naturali che influenzano il sistema delle importazioni-esportazioni. È ancora tutto legato alle calamità naturali, agli squilibri climatici? E se si, giacché il clima dal 1743 a oggi non si è certo stabilizzato, dobbiamo aver paura?
Procediamo per ordine. Le informazioni circolavano anche al tempo del Regno. Le condizioni peggiori erano quelle delle province periferiche. Anche il grande architetto e pittore Luigi Vanvitelli, nato Lodewijk van Wittel, figlio di Gaspar, famoso pittore olandese, se ne preoccupava tant’è che addirittura lo scriveva al fratello, segnalando calamità naturali nel Cilento (in lettere successive precisa che si trattava di altre località). Le cose andavano un po’ meglio nella zona detta Terra di Lavoro, che alienava molto spesso i prodotti al territorio pontificio del beneventano e in Capitanata, dove usava fare incetta di grano. Non era una crisi agricola limitata al Regno: dilagava in tutta la Penisola e nel resto dell’Europa. Era già globalizzazione. Napoli, per quanto attraesse pressoché tutto ciò che veniva prodotto, aveva fame insaziabile, era un buco nero che non poteva fare altro se non assorbire in un attimo ciò che veniva prodotto da un sistema agricolo sottosviluppato; il mondo contadino non poteva sopperire a quei bisogni; le strutture economiche non potevano dare sostegno. Ciò non significa che si vivesse una situazione meno florida di altre. Non mancavano le eccellenze e al sud si produceva l’energia dell’epoca: lo zolfo. Il popolo avvertiva l’angoscia della situazione. I prezzi aumentavano. Grandi difficoltà avevano i maccaronari e i ciambellari. Si può quantificare il bisogno quotidiano del mercato cittadino in oltre mille tomoli di grano al giorno e in cinquecento tomoli di farina, come evidenziò il Salvatore De Renzi, studiando il carteggio tra i responsabili della municipalità e il governo borbonico. Carteggio parzialmente dallo stesso pubblicato in NAPOLIdell’anno 1764.
Risulta evidente come in questa situazione gli speculatori potessero fare grandi affari e danneggiare il sistema. Ovviamente non mancarono i Masaniello e si profilava la situazione adatta per gli studi di Giambattista Vico, al quale in Vatolla è sopravvissuto l’ulivo sotto cui meditava e studiava. Stessi studi, ma con operatività rivoluzionaria fece la patriota Eleonora Anna Maria Felice de Fonseca Pimentel. Tra le fonti dalle quali si può attingere notizie articolate e relative a ogni zona del Regno, spiccano i libri di Memorie. Venivano scritti soprattutto da notabili, avvocati: ovvero da chi aveva dimestichezza con la penna, ma ci provavano anche altri. Negli Archivi di Stato se ne rinvengono molti. Uno: Le MEMORIE di Pietro del Giudice. Sono custodite nell’Archivio di Stato di Salerno, fondo Arechi Privato, b. 31. una descrizione della carestia è fatta anche dal notaio Domenico Lordis di S.Gregorio Magno (SA). Anche questa è all’Archivio Storico di Salerno, a. III (1935), fasc. I° (gennaio-marzo). Altre MEMORIE sono conservate da numerose famiglie. Da una situazione del genere non potevano che derivare gravi conseguenze per la salute. Soprattutto per la povera gente, costretta ad andare a procacciarsi il cibo nei campi. Anche le siepi vennero assalite per recuperare foglie per le minestre. Non è difficile immaginare i volti emaciati della gente, di cui si trovano infinite descrizioni. E il problema più grande divenne: dove seppellire i morti? Si dovette attendere più di cinquanta anni e Napoleone Bonaparte per comprendere la necessità dei cimiteri.
Finalmente, incerti, se camminavamo su rocce o su macerie, potemmo riconoscere alcuni massi oblunghi e squadrati, che avevamo giŕ notato da distante, come templi sopravvissuti e memorie di una cittŕ una volta magnifica. Viaggio in Italia, 23 marzo 1787 W. Goethe
Dalla seconda e terza di copertina: “Vincenzo Esposito insegna Storia delle Tradizioni popolari (Facoltà di Lettere e Filosofia) e Antropologia culturale (Facoltà di Scienze Politiche) presso l’Università degli Studi di Salerno. Ha pubblicato, fra l’altro, i volumi “Si parte per la Madonna da lu monte..”, Feste tradizionali in Val d’Agri (1987); Nel paese dei balocchi? Pupi, burattini, marionette, robot (1994); Fu vista levarsi una stella. Il presepe contemporaneo (1995); Finzioni. Esercizi di Antropologia culturale (1999). Ha curato i volumi Annabella Rossi: Il colpo di sole e altri scritti sul Salento (2002) e Annabella Rossi e la fotografia. Vent’anni di ricerca visiva nel Salento e in Campania. Dal Cilento verso Capri è una ricerca etnografica su alcune feste religiose della provincia di Salerno, quelle che è possibile osservare a partire dai confini con la provincia di Napoli fino al limite della provincia di Avellino, nella Valle dell’Irno, nell’agro sarnese-nocerino e, più a sud, in alcuni paesi della costiera amalfitana e poi nella città capoluogo e, ancora, in quella più vasta area meridionale, genericamente conosciuta con il nome di Cilento Antico o “storico”.
I rituali esaminati sono quelli che si svolgono per festeggiare ed insieme ricordare gli avvenimenti prodigiosi narrati nelle storie e nelle leggende relative ad alcune immagini sacre o a particolari percorsi devozionali, vicende miracolose strettamente legate al territorio indagato tanto da diventare ricordo, memoria, identità”.
Preliminarmente l’Autore evidenzia come il testo restituisca ai lettori solo una parte delle feste religiose della provincia di Salerno. È solo una frazione di un immaginario amplissimo, di una ritualità antica e complessa, molto indagata negli ultimi decenni, eppure sempre affascinante. Si tratta di feste che rientrano nella tradizione di una macro area che va dalla provincia di Napoli fino a quella di Avellino, nella Valle dell’Irno, nell’agro sarnese-nocerino, in parte dei paesi della costiera amalfitana, nella città capoluogo, nell’intero Cilento Antico o, come l’Autore evidenzia, ‘storico’. Sono escluse, pur essendo difficile farlo davvero, le feste dove affluiscono partecipanti residenti altrove. In ogni caso si tratta di feste che hanno molto in comune, anche con quelle escluse dall’indagine, giacché: “In tutte le feste religiose meridionali sembra agire cioè, attraverso svariate modalità simboliche, il meccanismo salvifico, purificatore e rigeneratore vita –morte –vita, assunto esemplarmente nell’orizzonte cristiano dalla vicenda del Cristo”(Lello Mazzacane).
A ciò si aggiunge che al modello utilizzato “sottende un apparato di risoluzione simbolica di bisogni e aspettative sostanzialmente irrisolte sul piano realistico e quotidiano”(ancora Mazzacane). Sul piano dei singoli quel che si cerca è rassicurazioni sulle sofferenze, sulle malattie, sulla precarietà dell’esistenza: le feste e i pellegrinaggi avviano a soluzione ogni problema rivolgendosi a un santo o a una madonna. Altro dato che lega ogni rituale religioso risale all’origine del culto: spessissimo l’episodio originario è similare; spesso vi è un miracolo che ha segnato la memoria storica della collettività. L’Autore, approfonditi i meccanismi antropologici a base del testo e dato atto degli autori di riferimento, evidenzia alcuni rischi connessi ad approfondimenti del genere, come il folklorismo. Fatto sta, come ebbe a evidenziare il De Martino, che “I comportamenti magico-religiosi popolari erano un espediente culturale attuato dalle classi subalterne per non restare “fuori dalla storia”. Anche se la cultura dominante ha negato che ciò esistesse, e lo ha fatto proprio attraverso il folklorismo.” A tal proposito Annabella Rossi ha scritto:
“Un fenomeno così umanamente drammatico qual è tarantismo, nel corso del quale le “morsicate” dimostrano attraverso la danza, i sospiri, l’accorrere al santuario di San Pietro e Paolo a Galatina, tutta la miseria della propria esistenza, un’esistenza che non ha speranza e che tutta si confida nella soluzione esistenziale che possono offrire le diverse tecniche connesse al rito del tarantismo, non viene compreso a livello di studi folklorici se non come “curiosità”, “esotismo”, incorniciato in uno scenario, quale può essere quello naturalmente “bello” della Puglia; così viene annullato lo scandalo civile del rito, che diviene, paradossalmente, un’attrattiva ulteriore di una regione che alla luminosità del paesaggio unisce, per il forestiero pensoso, l’esotica occasione per dubbi generici, ma vagamente solleticanti.”
Si giunge via via alle ritualità: i sassolini bucati raccolti durante la processione che sarebbero miracolosi; la miracolosità dell’acqua dove il sasso bucato è stato una notte intera e per questo fatta bere ai malati; il portarli appesi al collo con l’abitino della madonna; la sabbia che ha fatto da zavorra andando per mare che al ritorno viene considerata della madonna… E: san Matteo che fa affondare miracolosamente le navi di Ariadeno Barbarossa (Kayr Al-Din); la manna sgorgante dal corpo dello stesso santo; le Confraternite e le Compagnie; le cente portate in testa da fedeli diretti al monte Stella, partiti da Omignano, Guarrazzano, Amalafede, Celso, San Mauro, San Mango, Mercato Cilento e Sessa Cilento. Vi giungevano attraversando boschi secolari, sempre con sulla testa il peso delle candele riunite in cente al ritmo di ciaramelle, zampogne, organetti.Spesso, lungo il tragitto, i sentieri si riunivano; le varie Compagnie si incrociavano e praticavano un rito di pacificazione che implicava la fusione di vari paesi, senza alcun conflitto di tipo campanilistico. Ciò emerge anche dall’ultima strofa del canto di pellegrinaggio: “la maronna re la stella cu’ lu manto / accoglie e accummoglia tutti quanta”.
Il 28 gennaio 1799 un tragico evento si compì a Montessani (Montesano Sulla Marcellana). Nicola Cestari, il primo cittadino, il sindaco, dopo aver a lungo lottato per i diritti civili dei concittadini e non solo, fu ucciso dai sanfedisti e in parte arrostito (la guancia), infine mangiato. La sua casa fu saccheggiata e i piccoli figli furono portati in salvo all’ultimo momento, nonché sottratti alla atroce visione, da una donna di Buonabitacolo. Oggi la definiremmo una badante. L’eloquenza della parola che caratterizzò Nicola Cestari, è impressa su foglio bianco per sottolineare l’espressività delle immagini e l’idea creativa. Via via, però, Nicola si mostra per quel che ormai è: egli è morto, eppure il suo pensiero è nel presente, è qui e ora, ma si immagina che abbia potuto vedere tutto ciò che successe dopo, dalla fine di Carlo Pisacane alla cosiddetta epopea garibaldina, alla attualità di una Italia che si potrebbe definire ancora non concretamente fatta. Il linguaggio utilizzato da Nicola Cestari, il Galantuomo, come lo definisce nel titolo di un suo libro Felice De Martino, è all’inizio aulico. L’espediente adottato serve alla narrazione: come avrebbe potuto raccontare gli eventi un testimone ai fatti della fine del diciottesimo secolo, quali termini avrebbe utilizzato? Essendo l’intento, però, raccontare e diffondere la verità alle nuove generazioni, con la bocca della vittima, il linguaggio non può restare immutato. Se ciò accadesse si verificherebbe una ipotesi narrata anche nella cinematografia dei fratelli Taviani: non vi sarebbe possibilità di comprensione tra rivoluzionari e le future generazioni, per le quali i primi hanno combattuto. Nicola Cestari per molti versi fu un rivoluzionario e un antesignano di spinte emancipatorie e, pertanto, da morto, dà una lezione: sceglie di modificare il proprio linguaggio e adotta quello giovanilistico dei messaggini. Sul finire il protagonista-voce narrante sembra rendersi conto che certi diritti non sono ancora acquisiti. Si osserva, a questo punto, un fenomeno che potrebbe rientrare tra quelli cosiddetti di “metempsicosi” o di reincarnazione. Nicola Cestari “consegna” alle future generazioni un appello, quasi incarnando sé stesso e gli altri personaggi influenti nella Unificazione d’Italia nei giovani di oggi: Siate tutti, uniti, in un sol grido: libertà, uguaglianza, fraternità, ke la vita è bella se lo è per tutti. Li esorta, altresì, a non aver paura e, fiducioso, si firma: Nn temete; ciò ke otterrete è scritto. Noi lo volemmo con forza. Noi vi guardiamo. Voi siete i nostri okki. Nicola Cestari.
Per saperne di più sui fatti storici: – Leopoldo Cassese, Giacobini e realisti nel vallo di Diano nella Rivoluzione del 1799, in «Rassegna Storica Salernitana» a. X (1949), opera citata anche in: Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in terra di Bari e Basilicata: atti del Convegno di Altamura-Matera: 14-16 ottobre 1999, nota 10. Felice De Martino, La breve stagione del Galantuomo, Pegasus Libri.
Il racconto SUOLO ARROSSATO è nella antologia CARA ITALIA … Epistolario alla nazione, Pragmata Edizioni, Roma, che condensa contributi selezionati per l’omonimo concorso nato per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
SUOLO ARROSSATO
Montessani, 28 Gennaro 1799
Vi scrivo, avvolto nella mia candida tunica. Oramai sono solo energia, soverchiato e vinto da un tremore incontenibile. Ho freddo. La morte mi ha da tempo ghermito, ma vi vedo. Non posso fare altro che ripetere le parole pronunciate nella piazza battuta dal vento gelido. Chi di voi le ricorda? Chi ricorda gli attimi che precedettero l’atrocità, il prima che maschi e femmine, ancora non uomini e non donne, facessero banchetto delle mie carni? Ero ancora vivo; i loro denti affondarono nelle mie guance arrostite su braci di castagno, davanti agli occhi dei miei figli. E rivedo quella santa donna dagli occhi neri che li portò in salvo per vicoli luridi, case bruciate, grida di morte sempre più prossima. La vedo, inerme, eppure potente nella decisione di salvare il sangue del mio sangue. Rivedo il mio mantello. Fa parte di un lontano passato. E vedo il vostro mantello, che per me era nel lontano futuro; rivedo quel rosso intenso. E rivedo drappi verdi. Vi vedo, avvinti a una idea, attratti vorticosamente da una energia rivoluzionaria. E vi vedo nascere. E vi vedo crescere. E vi vedo morire, giovani, forti. Siate sereni: non sono morte le vostre idee che, seminate in terreno fertile, porteranno il frutto desiderato e mai assaggiato. Ancora lontano da venire. Non potrò essere altro che solo energia e non mi sento quel che sono stato. Quel che fui lo ricordo attimo per attimo; anche l’ebbrezza del sangue versato per difendervi è per sempre instillata nella mia memoria. I miei ultimi novanta giorni di Repubblicano, la breve vita e gli ultimi giorni di amato galantuomo stanno consumandosi. Non sono più il giurista che fui; non sono più il Presidente della Municipalità di Montissani. Non sono più altro che il mio nome su una tomba. Io sono stato Don Nicola Cestari. Vedo il Regno di Napoli, la sua rivoluzione democratica, la Repubblica Partenopea, che visse la sua giovane età, consumata in una esile frazione di tempo: dal dicembre scorso alla estate successiva. Così la costernazione ci prese; tutto pareva fosse destinato a finire. Era stato solo un fuoco di paglia, ma non si è spento del tutto; potrete ancora alimentarlo, renderlo fiamma capace di dare la libertà. Da qui posso contare uno a uno i galantuomini esanimi sui campi di battaglia. Erano i precursori laici della politica che, dotati solo di entusiasmo, inesperti e privi di mezzi, non seppero fare ciò che i Giacobini d’Oltralpe seppero compiere. Sapevo che non sarebbe stato facile reggere da Repubblicano la comunità alle prime prove di democrazia. Ma contavo sugli Statuti della Repubblica Partenopea, cui aveva messo mano, quale primo estensore, altro sangue del mio sangue l’abate Giuseppe Cestari. Morì martire sulle barricate erette nella Capitale, in quella Napoli a noi cara, al Ponte della Maddalena, per difendere la Libertà così sanguinosamente ottenuta. Gli attacchi della controrivoluzione e l’ira delle schiere sanfediste capeggiate dal terribile Cardinal Ruffo, sfondarono le nostre difese e travolsero ciò che avevamo creato. Da qui io rivedo tutto e vi dico: Prendete come esempio l’Abate Giuseppe Cestari. Egli è stato ben più di me capace di indicare una necessità essenziale: occorre che tutti si manifestino, a un tempo, come sintesi solida del DIRE e dell’ESSERE. Leggete queste mio grido: saprete con chiarezza che non si può essere quieti nell’animo per ragione dei mostri che albergano negli uomini che comandano, che comanderanno. Fu così anche in quei tragici giorni. Io ora so tutto: i mostri ne generano altri, ancor più truci e più cannibali. Io ora so: che in quei mesi mancarono la farina, il grano, il pane, il vino, la libertà, la fratellanza, l’uguaglianza. Mancano ancora. Conquistatele, anche per me. Liberatami da questa condizione. Non so vedervi figli, tutti figli del mio sangue, senza anelito di libertà. Vi giungano queste mie parole, giungano a tutti. Anche a te, Carlo, voglio che esse sappiano raccontare il passato e vorrei essere capace di allertarti, dirti cosa c’è nel tuo futuro. Vorrei poter gridare: Attento! Attento! Poni attenzione per te e i tuoi trecento. In quelle plaghe desiderose di libertà, che la rivoluzione l’hanno voluta e sperimentata, c’è il mostro che vi attende. Sarete uccisi tutti. Tu stesso spegnerai il tuo sguardo azzurro. Ma ti leggo dentro la certezza, la decisione, la volontà. Tu vuoi morire per la Libertà e l’Uguaglianza, e io non potrò, cuore degno e bello, fermare il tuo passo, non potrò fermare l’impeto dei tuoi giovani trecento, non potrò fermare il ferro delle mani assassine e le bocche che berranno il vostro sangue. Le vedo spalancate, quali fauci affamate. È lì l’indegnità. Non è nella terra. È nelle menti di pochi che sanno dominare i molti. E la moltitudine vi ammazzerà. Adesso è tutto accaduto. Di te resta solo un misero cippo a Sanza; per te, caro Carlo Pisacane, poche lettere scalpellate in un anonimo cippo. È il prezzo pagato per il tuo sangue; e non modificano l’esiguità della controprestazione le poche statue erette nelle piazze italiane, di una Italia che ancora non è fatta. Altri verranno e sembrerà possibile compiere l’impresa. Saranno più di mille. Il rosso è ancora dominante. Vedo più di mille camicie. Vedo i loro piedi sul suolo arrossato; è quello che tu calpestasti amorevolmente con i trecento, andando incontro alla morte. Adesso gli osanna della moltitudine, tra cui individuo anche persone che ammazzarono voi, si alzano altissimi nei cieli. Quel male fatto mi attanaglia. Anche nella condizione da cui non posso fuggire, avverto i patimenti di giovani uomini e donne. Nuove costituzioni si sono succedute. Chi ha resistito lealmente ha dovuto fuggire. Troppe fucilazioni, anche di giovani corpi stranieri, vedo e mi torturano l’anima. Sento anche la loro fame. Sento la eco di grida di morte sovrapporsi ad altre urla di terrore. Vedo le fiamme bruciare boschi, castelli, ruderi, animali, corpi umani vivi. Vedo il deserto. Vedo una moltitudine in fuga verso le Americhe. Sanno che mai più vedranno il loro suolo, i loro ulivi torti, i loro ruscelli. E mai più sentiranno i loro idiomi, le voci delle madri raccontare le fiabe mai da nessuno scritte. Essi saranno perduti per sempre, come lo sono io, come lo sei tu Carlo, come lo sarai tu Giuseppe. Ma noi non abbiamo patito lo strappo dalla propria terra. Chi l’ha lasciata l’ha voluto. Loro no. Loro potevano solo fuggire o subire la fucilazione. Lo dico anche a te, bella briganta nuda, da qui vedo il tuo soffrire e il tuo sacrificio. E vedo il tuo corpo vituperato. Non so quale, ma un fiore nascerà dalle tue carni, dal tuo sangue giovane. Gli entusiasmi di chi cercava di raggiungerti, Giuseppe, sono ormai spenti. Penne felici scrivono la storia. Sono le penne dei vincitori. Narrazioni intense e suggestive dimenticano i lutti e le passioni dei perdenti. Molti misteri vedo, sopravvissuti senza spiegazioni. Per quale arcana ragione e con quali violenti mezzi svanì Ippolito Nievo? Le tante ricchezze partenopee che fine fecero?A queste domande io non posso dare risposta: voi non le ascoltereste. Attraversate anche voi, giovani uomini, le strade e le città; aprite gli occhi; volgete lo sguardo fendete lo spazio e il tempo con un solo scopo: raggiungere la VERITÀ e narrarla. Sarà solo quella a darvi una Italia davvero fatta da genti libere, uguali, fraterne. Scrivete con il vostro nuovo idioma, insegnatemi a farlo, ma scrivete la VERITÀ. Voglio raccontare tutto. E vorrei che voi foste la mia penna.Li vedo i Trecento giungere dal mare. La maggior parte provengono da prigioni violentemente aperte. Ma sono giovani. Sotto l’albero monumentale vicino la Certosa di san Lorenzo, a Padula, ne vedo cadere otto, dopo aver lasciato il suolo santo. La folla lancia grida incomprensibili. La scena è affatto diversa da quel che ho visto accadere poche ore prima, da quel ke mi era sembrato di vedere. Pareva ke li aspettassero e pure a me pareva che sarebbero stati accolti da preghiere, canti, osanna. Invece no. Nn hanno incontrato la libertà in quelle terre, ma il ferro ke li trafigge. Quelli ke stanno per giungere, da quello scoglio nn potranno rivolgere lo sguardo al passato, anke se sapranno di loro. E di me. Essi sono in più; i solchi segnati e seminati hanno forse dato frutti. Celati dalla bianca nebbia, si cercano a voce; il comune obiettivo è far nascere la nuova Terra. Nn sanno, nn avrebbero potuto saperlo, dei mille stupri che l’attendono. L’ITALIA nn sarebbe stata vergine, mai più. Occorrerà che quel sangue versato ingiustamente venga metabolizzato. Non è ancora accaduto. Io non avrei potuto vederli; nn c’ero già più. E non so per quale strana maledizione, o è una benedizione?, sono a qui a gridare la VERITÀ. Cosa avrei potuto pensare negli ultimi momenti di vita, mentre mi mangiavano? Avrei dovuto forse chiedermi se sarei rinato? Se qualcosa di me sarebbe resuscitata? Se avrei mai dimenticato l’atroce notte? Di tutti gli altri erano giunte le grida, avevo intuito gli ultimi respiri, sperando nn avessero sofferto, nn quanto me. Il rosso solco ke mi accoglieva era irrorato dai rivoli di sangue che mi abbandonava, gorgogliando tra gli ultimi spasmi giovanili. E con esso perdevo la vita. Tu, ke dall’alto della tua giovinezza mi leggi, lascia ke il bello di questa Terra esca dai Musei, dai Teatri, dalle pagine scritte. Fai in modo ke dilaghi nel mondo, incontri altre culle di civiltà. Scrivi con il tuo idioma, senza paure ma con okki aperti, questo msg x me: Non siate 300! moltiplicatevi. Siate tutti uniti, in un sol grido: libertà, uguaglianza, fraternità, ke la vita è bella se lo è per tutti. Nn temete; ciò ke otterrete è scritto. Noi lo volemmo con forza. Noi vi guardiamo. Voi siete i nostri okki. Nicola Cestari
L’ottimo articolo “Giuseppe Ungaretti: turista d’eccezione nel Cilento”, di Emilia Di Gregorio, premiato da un successo di lettura planetario, dà anche conto di un racconto narratogli mentre osserva i campi di fave.
Ciò consente al poeta di acquisire notizie sulla morte di Pitagora: “raccontano di Pitagora che rimase ucciso presso Girgenti […] non avendo osato, per scrupolo religioso, attraversare un campo di fave.”
In realtà la vita di Pitagora è avvolta nel mistero e nella leggenda. Il racconto ascoltato con interesse da Ungaretti nel Cilento è molto significativo e ricco di aspetti approfonditi da studiosi insigni. È vera la circostanza nella parte in cui lascia emergere l’idiosincrasia del filosofo e della Scuola per le fave; è forse opinabile la ragione adombrata nel racconto (“scrupolo religioso”). Effettivamente la leggenda dice che Pitagora, in fuga dagli sgherri di Cilone di Crotone, scelse di fermarsi davanti a un campo di fave e fu la morte per lui. In realtà egli, come tanti altri, neppure le sfiorava le fave e non tanto per ragioni religiosi bensì fisiche: c’è la prova che nel crotonese era diffusa e ben nota la malattia ereditaria, relativa al cromosoma X, cosiddetta impropriamente “favismo” (si veda: Pitagora e il tabù delle fave, Giovanni Sole (Rubettino editore). L’altra tesi, quella fondata su ragioni spirituali, è suggestiva e fondata su credenze mistiche molto antiche, peraltro ottimamente chiarite da Levi Strauss, che ne evidenziò la connessione con il mondo dei morti, con la decomposizione e con l’impurità. Va da sé che, parlando di un personaggio leggendario, si giustifichino tesi contrapposte e talvolta anche strampalate. Si pensi che da LA VITA DI PITAGORA, opera di Porfirio (232-305 d.C.), si rileva addirittura che visse circa cento anni. Difficile immaginare che un vecchio potesse salvarsi dall’inseguimento, correndo attraverso un campo di fave, anche se avesse scelto di farlo. Di certo c’è che si narra della sua venuta in Italia e che si stabilì a Crotone, come scrive Dicearco. Era un uomo che aveva molto viaggiato, ricco, dall’aspetto nobile, affascinante anche nella voce. Non a caso di fronte al sinedrio degli anziani della città tenne discorsi che accesero i magistrati, cui espose argomenti nobili. Seppe parlare anche ai giovani e alle donne. Grazie a lui sorse la prima associazione femminile. Sulle leggende chiaramente esagerate, vediamo due. Da vari scritti emerge che catturò la tremenda orsa di Daunia, che infieriva sugli abitanti del luogo, e, dopo averle parlato a lungo, le estorse il giuramento di non molestarli più. La lasciò libera e l’animale se ne ritornò nella selva. Non fece più male a nessuno. , sui monti vicini, e non fu vista in alcuna occasione attaccare neppure un animale privo di ragione.
A Taranto, invece, gli accadde di imbattersi in un bue. Trovandosi in un pascolo ricco di varie erbe, si cibava di fave. Pitagora si avvicinò al mandriano e gli suggerì di dire all’animale di astenersi dalle fave. L’altro, ovviamente, si stupì non poco e dovette dirgli con forza che non sapeva parlare la lingua dei buoi. Ovviamente lo fece Pitagora: sussurrò al bue non solo di non cibarsi di fave, ma nemmeno di sfiorarle. Quel bue visse a lungo a Taranto, presso il tempio di Era; fu chiamato il “bue sacro”, alimentato dalle offerte di cibo che i visitatori gli offrivano.
Dalla seconda si può chiaramente intendere l’intenzione educativa che metteva in guardia dai rischi connessi al mangiare e toccare fave.
Altre tesi sulla morte di Pitagora, vedono ancora Metaponto come set:rifugiatosi nel piccolo tempio dedicato alle Muse, vi rimase quaranta giorni senza cibo, prima di morire. Altri raccontano che si trovava in una casa incendiatasi improvvisamente. I suoi amici, gettatisi nelle fiamme, aprirono una via di uscita al maestro. Si sistemarono, addirittura, in modo da formare una specie di ponte sul fuoco, verso la salvezza. Pitagora, scampato all’incendio, accortosi che essi erano morti, si uccise per il dolore.
Come trascorreva il tempo dei briganti? Quali i loro giochi, cosa mangiavano, quali i connotati della loro umanità? Inchiesta sul brigantaggio salernitano attraverso un libro da salvare: “Quattro Mesi fra i Briganti 1865/66”, di Johann Jacob Lichtensteiger.
A cura di ugo Di Pace; con un saggio su Raffaele Del Pozzo, fotografo di briganti.
Avagliano Editore
Era il 13 ottobre 1865 quando Johann Jakob Lichtensteiger, disegnatore di tessuti presso l’azienda Wenner & C. di Salerno, venne sequestrato insieme al figlio del titolare dell’azienda e altri due connazionali da una banda di briganti. Furono tenuti prigionieri per tutto l’inverno sulle montagne, a scopo di ricatto. In quello stesso periodo un fotografo salernitano, Raffaele Del Pozzo, operava al servizio delle forze dell’ordine, riprendendo le immagini dei briganti catturati o uccisi. Le loro strade s’incrociarono il giorno del rilascio: era il 10 febbraio 1866. Il fotografo e i sequestrati si trovarono di fronte per pochi minuti, di qua e di là dell’obiettivo, collaborando alla realizzazione di uno dei documenti più rari dell’iconografia brigantesca. Rientrato nella normalità, il Lichtensteiger stese una vivace narrazione della vicenda, il cui testo, pubblicato un anno dopo la sua morte, si propone qui per la prima volta in traduzione italiana. Ugo Di Pace l’ha corredato di un ricco apparato di note e ha ricostruito il repertorio delle immagini dei briganti, in gran parte inedite, riprese nell’arco di un decennio dal Del Pozzo, studiandole in un saggio nel quale esamina la diffusione e l’uso che di tali immagini si faceva nella società dell’800, e recupera alla storia della fotografia la personalità finora sconosciuta di un pioniere.
Fu lo stesso curatore, Ugo Di Pace, a trovare nell’archivio Wenner: Vier Monate unter den Briganten in den Abruzzen (era stato pubblicato con il più esatto titolo: Vier Monate unter den Briganten in den Süditalien). Lo aveva scritto uno dei sequestrati: Johann Jakob Lichtensteiger. Siamo nell’ottobre 1865. I briganti della banda Manzo avevano sequestrato ben quattro persone; prelevati dagli spazi dell’opificio industriale furono: Federico (Fritz) Wenner, figlio dell’industriale svizzero, Isacco Friedli, Rodolfo Gluber. E il Lichtensteiger, autore del Diario. Anche se dal titolo parrebbe che i prigionieri siano stati trattenuti in Abruzzo, in realtà vissero per quattro mesi tra i bellissimi monti Picentini e la catena degli Alburni, giungendo sino ai lembi del Vallo di Diano. Non furono certo i primi stranieri a essere sequestrati dal Manzo: già nel maggio precedente, a Battipaglia, lo era stato il ricco inglese William Moens: proveniva da Paestum con un altro sequestrato, Murray-Aynsley. Tutto ciò è anche nel sito di Avagliano Editore (http://www.napoliontheroad.it/avagliano.htm), ma qui acquisito e rielaborato.
Veniamo ai fatti raccontati. Dopo una enfatica descrizione della estate del 1865 e della bellezza dei luoghi (le migliaia di luci ci Salerno; le stelle; i fiumi; l’essere cullati sulle acque; i sogni), il diarista passa lentamente al problema: “La sera del 13 ottobre, alla solita ora, cessò il ronzio della filanda, che sorgeva un po’ distante dalla città. I cancelli erano aperti; gli operai sciamavano via fuggendo da quei locali divenuti familiari ma mai amati, e si disperdevano in tutte le direzioni in piccoli gruppi multicolori. Negli uffici, invece, il lavoro monotono (…) finiva prima: gli scrittoi venivano sgomberati, i pesanti brogliacci, i libri di cassa e i libri mastri venivan messi sotto chiave; subito dopo, all’aperto, principale ed impiegati respiravano a pieni polmoni l’aria ristoratrice che un leggero vento portava dal mare”.
“Nello splendore del crepuscolo riluceva, incandescente come brace, Salerno, la città a terrazzi e la frastagliata costa rocciosa di Amalfi brillava purpurea. Si potrebbe contemplare questo meraviglioso spettacolo tutti i giorni, ed ogni volta ci sommergerebbe fino allo smarrimento; la natura non invecchia mai. Nere nubi simili ad enormi fantasmi si alzavano a ponente, poco a poco un forte vento le sospinse per tutto il firmamento. Il mare, che nelle sere miti rispecchiava migliaia di stelle e di luci, quella sera era un mondo pieno di tenebre, che scompariva completamente alla nostra vista, e se ne udiva soltanto il fremito. Ci affrettammo in direzione del Casino, abituale ritrovo serale degli svizzeri a Salerno. Una notte di un nero corvino avvolgeva città e campagna. Tuttavia anche questa notte aveva i suoi amici: il crimine ama l’oscurità”.
Erano le ore 22 e il fine narratore si trova con Fritz Wenner e Friedli. Sentono una voce: Silenzio! Niente grida, nessuna resistenza, o per voi è la morte!. Di lì a poco si trovarono in balia dei briganti. Erano in nove; tra loro anche Manzo. Sopraggiunsero altri quattro briganti con Gubler. Sentirono dire: “E ora avanti! Non temete, non vi sarà torto un capello: non si tratta di sangue ma di soldi”. Inizia così la incessante marcia fatta si stanchezza, fame, freddo, scarpinate tra calanchi e cime montuose. Il 17 ottobre, sul fare del giorno, giunsero su un ripiano di altura, in una tempesta. Solo alle nove trovarono un rifugio: ma era insufficiente. Lo svizzero compie un atto di grande lealtà: scrive che i briganti lasciarono a loro, ai prigionieri, il rifugio, la zona coperta.
Qualche ora dopo mangiano il classico “arrosto della zingara”: è il migliore nelle occasioni liete, gioiose, nelle scampagnate. Si spostano in continuazione; giungono su vette; si proteggono sotto le rocce; mangiano due mele a cena, offerte da un brigante; non si spiega come in piena notte il capo brigante riesca a trovarli e dire che lì non stanno al sicuro. Tocca muoversi ancora. Una parte dei briganti, con Manzo, si stacca per andare alla ricerca di cibo. Ritornano con pane e mele. È in questo momento che i prigionieri scoprono che i briganti giocavano a soldi.
“La maggior parte del tempo essi giacevano a terra pigramente, ora supini, ora all’incontrario. Per tre quarti della giornata dormivano a turno”.
E: “(…) i briganti giocavano senza fine e di tanto in tanto prorompevano nelle loro originali imprecazioni blasfeme. Neanche la pioggia li disturbava, si stendevano i mantelli sul capo e continuavano a giocare.” Giocavano a carte o a testa e croce. Comunicavano tra loro facendo i versi degli animali. E, ovviamente, essendo il narratore certamente non indifferente, proveniente da una cultura ben diversa, stigmatizza il modo di vivere dei briganti, il degrado, la devianza; emerge qui e làforse anche un po’ di razzismo: “Gioco e passione sono inseparabili: il giocatore pretende di vincere. Ma solo in quei boschi capii realmente quanto colga nel segno col suo giudizio lo spirito popolare, quando chiama il gioco l’ora di raccoglimento del diavolo, e le carte il suo libro delle preghiere. Il nome di Dio Padre, di Cristo, della Madonna e di vari santi veniva pronunciato sotto i rispetti più oltraggiosi. In che Manzo giocava e bestemmiava insieme agli altri. Dopo alcuni giorni, diversi briganti non avevano più niente da perdere al gioco, ed in più ora avevano anche debiti”.
Non mancò mai il pane e formaggio, il vino, l’acqua, e spesso ci furono anche i momenti dei maccheroni cotti in un paiolo. In una occasione anche la paura per un rumore fra i cespugli; la fuga e il ritorno verso la capanna, appena fu compreso che si trattava di un falso allarme: i maccheroni erano cotti a puntino. Giungerà, poi, pure la pausa del rito tribale: il maiale, comprato dall’addetto alle provviste, trascinato; ammazzato; sbudellato e squartato da Manzo (che si intendeva anche di quello, tiene a sottolineare). Una parte della carne fu salata e conservata dentro alcuni vasi, sotto la neve. Lichtensteiger, verso la fine, evidenzia che, malgrado laceri e sporchi, sono, essi prigionieri, addirittura sovrappeso. Senza che il narratore lo voglia, emerge anche uno spaccato della cultura dei prigionieri: “(…) passavamo una parte della giornata a trasformare la banda in un giardino zoologico e in una collezione di rarità, e cioè ribattezzavamo ogni brigante col nome di un animale o di una cosa … I nomignoli alludevano per lo più a qualche caratteristica dei briganti …scimmia…bufalo…cubo…” Non manca il confronto oseremmo dire etnico tra gli italiani e i tedeschi. Lo fa addirittura narrando del momento del rilascio: “L’italiano non si accontenta di una semplice stretta di mano, come il tedesco. Girammo di braccia in braccia, e ricevemmo quasi teneri baci d’addio!”. Furono liberati dopo aver visto le colline di Polla, le asperità del Cilento interno.
Giuseppe Ungaretti individuò nel Cilento una meta cui dedicare parte della vita e della sua vena poetica. Il viaggio muove da Salerno. È il 12 aprile 1932. Il poeta coglie immediatamente un dramma: incentrato nella potenza del mare, suggerisce il senso di solitudine che ingenera in chi si siede e lo osserva. Anche se si sia sommersi dalla folla di un porto, in fermento. Quanto è attuale questa consapevolezza; è lampante la sua capacità di dimostrare la tendenza dell’umanità a dimenticare i pericoli, che la natura può essere matrigna. Impiega il suo tempo, Ungaretti, in scenari epici: pianura di Paestum, Agropoli, Valle dell’Alento, Elea, Punta Licosa; il Monte Stella. Siamo nel nostro Cilento. E da qui, dai luoghi geografici, va nella sua storia: Bizantini, Longobardi, Saraceni; Cicerone, Carlo V, Senofane, Parmenide. E infine l’incontro osceno, l’inevitabile impatto con dimensioni fisiche. È quello con la Natura da narrare con le sue parole poetiche: Scendendo, m’accorgo di tre ulivi: hanno il tronco corto e liscio, e, grandissime, le braccia alzate. Non sono favolosi come altri, questi ulivi, ma sembrano, fino alla cintola ancora nel sepolcro, dei morti (nel libro è scritto forti; dovrebbe essere un refuso) resuscitati che per pietà vorrebbero tornare morti. Incontro poi delle piante oscene: asparagi selvatici, giovani cardi le cui foglie increspate, variegate come da cicatrici, s’attaccano alla terra come aspirate da un bacio.
Nei periodi successivi la sua vita, nel libro, la si immagina coniugata con fatti storici e altri squisitamente poetici: il 5 maggio 1932 è a Palinuro, nei luoghi che visitò Virgilio. È la data in cui fu pescata la testa di Apollo. Il 14 maggio 1932 è a Salerno. Il capitolo è intitolato: LA ROSA DI PAESTUM. Il 26 maggio accarezza con lo sguardo e le parole lievi Ercolano. Il 2 giugno è a Pugliano; il 17 a Pompei. Il 3 luglio 1932: è a Napoli, nella vecchia Napoli: piazza del Carmine e piazza del Mercato, dove Masaniello fece la rivoluzione. Il 19 è ancora a Napoli e scrive:
“La durezza di vivere mi prende un senso così fresco e eterno, e così naturale e degna mi sembra la condizione di combattere…
Oh! mare…
Vasàmolo int’a l’uocchie!
È un libro da salvare, questo, anche perché Giuseppe Ungaretti seppe entrare nella storia, nella cultura, nella mente dei meridionali: “Antico questo popolo lo è, non solo per il suo dialetto così profondo d’etimologie, suono e flessioni; ma per il suo attaccamento all’ispirazione panica della natura. Non ha dubbi sul mistero, e si premunisce contro la sorte invocando il miracolo. Verrà da tale natura anche la passione del giuoco? Vero è che l’ometto che se ne sta colle mani in mano a sedere su una panca di piazza Municipio aspettando il terno al lotto, dimostra di sapere – e non ha letto Pascal – quanto ci sia di casuale nella ricchezza.”
Nel sito di Alfredo Guida Editore leggiamo: “Ungaretti con Viaggio nel Mezzogiorno ci restituisce il segreto più profondo della Campania e il suo interrogarsi sul passato di quei centri significa cercare una luce sul proprio futuro. Così nei luoghi del mito virgiliano il poeta troverà quella terra promessa a lungo cercata, cogliendovi gli spunti per il proseguimento della sua attività creativa.” È ciò che abbiamo cercato nel libro; è questa l’ottica che ci interessa, giacché pone sotto i riflettori sia la Campania che l’Autore. È una visione, per usare un suo termine, “panica”, ovvero onnicomprensiva che lascia, tuttavia, la voglia di approfondire sia la terra che le genti e la loro storia.
Ci sono vari episodi del fumetto preferito dagli italiani, Tex Willer retti da un impianto di tipo storico. Uno è ambientato nella zona del fiume Little Big HorneRiver (o Little Bighorn, letteralmente “il piccolo Bighorn”), un affluente del Bighorn, siamo negli Stati Uniti d’America, che attraversa gli Stati del Wyoming e del Montana. Non è un fiume speciale; la sua fama è dovuta al fatto che fa parte del set in cui Custer portò a morte i suoi uomini. Si tratta di una vicenda ben nota. Sono diffuse, seppure poco note nell’ambito dei non specialisti, anche la notizie relative al trombettiere campano Giovanni MARTINI. Nel numero 492 dell’ottobre 2001Giovanni Martini, interpellato dal Custer, che nota il suo accento strano e gliene chiede ragione, dice testualmente:
Italiano signore. Sono venuto in America tre anni fa.
La nota a piè pagina (°) chiarisce:
Giovanni Martini era originario di Sala Consilina (Salerno) dove era nato nel 1853.
Chi era davvero e come mai si trovava al servizio del generale Custer?
Il suo vero nome era Giovanni Crisostomo Martini. Nacque a Sala Consilina nel 28 gennaio 1853 e morì a New York City il 27 dicembre 1922. Prima di trasferirsi in U.S.A., in una delle ondate migratorie, fu un patriota. Unico sopravvissuto alla battaglia nota come del Little Bighorn, fu naturalizzato statunitense e assunse il nome John Martini. Come spesso accade, le origini sono contestate: vi è chi sostiene che sia nato ad Apricale, in Liguria. Altri ne affermano la nascita a Sala Consilina, aggiungendo che era un trovatello abbandonato, lasciato alla Ruota dei projetti (da ciò trae origine il cognome PROIETTI, ma anche Esposito). Chi ne sostiene le origini ligure aggiunge: fu battezzato come Giovanni Battista Martini; era figlio di Giacomo e Giovanna Barberis; sarebbe nato il 16 marzo 1841 e si sarebbe sposato il 16 marzo 1860. Separatosi dalla moglie, con cui aveva un figlio, nel 1865, nell’anno successivo si arruolò volontario nel CORPO VOLONTARI ITALIANI, di Giuseppe Garibaldi, partecipando alla campagna del Trentino. Nel 1867 partecipò anche alla battaglia di Mentana. Lasciò l’Italia, ormai unificata, nel 1873, imbarcandosi sulla nave S.S. Tyrian da Glasgow. Sbarcò nel successivo I° giugno a Castel Clinton (New York), e si arruolò come trombettiere, sottoscrivendo la ferma di cinque anni. Inizialmente fu agli ordini del capitano Frederich Benteen, essendo assegnato allo squadrone H del 7° Cavalleggeri, comandato dal tenente colonnello George Armstrong CUSTER. I tratti somatici rilevati dalle note personali matricolari lasciano supporre una origine meridionale: altezza 168 cm; occhi marroni; capelli neri; carnagione scura. Oltretutto, proviene dalla stessa zona di Joe Petrosino. Giovanni Martini, nella battaglia del 25 giugno 1876, la celeberrima battaglia del Little Bighorn, combattuta dai soldati del 7° cavalleggeri, comandati scelleratamente dal generale Custer, fu il solo a salvarsi, giacché lo stesso comandante, prima di attaccare il campo degli indiani Sioux e Cheyenne, rispettivamente agli ordini di Toro Seduto e Cavallo Pazzo, con i suoi pochissimi cavalleggeri (soli 242), gli ordinò di recarsi a chiedere rinforzi alla parte di colonna rimasta di retroguardia. Come emerge anche dalla vicenda narrata in Tex Willer n. 492, vi era il dubbio che non capisse bene l’americano, tanto che il tenente William W. Cooke, scrisse su un biglietto: Benteen. Come on. Big Village. Be Quick. Bring Packs. W.W. Cooke PS Bring pacs, ovvero: Benteen. Vieni in fretta al Villaggio Grande e porta le munizioni. John Martin partì a spron battuto, mentre già si diffondevano gli allarmanti suoni delle prime scariche di fucili. Minacciato dagli indiani, dopo un’ora giunse al cospetto del maggiore Benteen. È interessante rilevare come dal Tex Willer si rilevi la necessità di salvarlo, per evitare che, se ucciso, diventasse un eroe. Sappiamo come andò e come si sai affermata una verità antistorica: Custer fa parte dei miti molto spesso ritenuti positivi.
John Martin, tre anni dopo, il 7 ottobre 1879, sposò una giovane di origini irlandesi. Ne ebbe ben otto figli. Al primo attribuì il nome George, come Custer, ovviamente, perché allo stesso doveva la fama: veniva spessissimo intervistato e a lui gli storici si rivolgevano per documentare i fatti accaduti. Conseguì anche la promozione a sergente e con questi gradi transitò al corpo degli artiglieri, 3° reggimento, batteria G. Nell’anno 1898 lo ritroviamo protagonista della guerra ispano-americana: oggetto del contendere l’isola di Cuba. Rimase nell’esercito fino al 7 gennaio 1904, finendo la carriera con il grado di primo sergente maggiore. Non fini di lavorare e non abbandonò subito la vista delle uniformi: gestì con la moglie un laboratorio di dolciumi vicino a un forte militare; infine fu bigliettaio della metropolitana, alla 103° Street Station, New York. Si separò nel 1906 e si trasferì presso una figlia a Brooklyn. Morì investito da un camion.
Molte altre notizie sul Tex Willer, Bonelli Editore, n. 492, si possono acquisire nel forum:
Brividi nella pelle per il ritratto di un Cilento visto dal dr. Sandro Bari, attraverso lo sguardo giovane di quando era Ufficiale di Artiglieria dell’Esercito Italiano, di stanza a Persano.
Non sono gli occhi di oggi a restituire le scene che lo impressionarono, bensì il ricordo elaborato da una speciale sensibilità, acuita dalla esperienza. Nulla di nostalgico. Nessuna molla scattata per simpatia o benevolenza spicciola che ci fa leggere con piacere immenso. È solo verità. Si potrebbero individuare potente venature di nostalgia, ma non è l’aspetto prevalente. Ci pare conti di più la sua voglia di ritornare, di riscoprire, di penetrare, con sensibilità acuita dalla esperienza di letterato, un mondo intenso che fu il suo mondo, vissuto già allora consapevolmente.
Le parole utilizzate da Sandro Bari sono potenti, ma ciò non sorprende chi lo conosca, chi sappia delle sue “battaglie romane”.
Basta ricercare nel web e si potrà vederlo in video youtube, nella “Festa De Noantri”, a esempio, dove “Sputa il rospo” a Francesca De Castro del giornale Voce Romana, segnalando coraggiosamente brutture contro cui ha lottato e lotta energicamente. Si possono anche ricercare le iniziative di “Roma Tiberina”, Associazione culturale per la salvaguardia del patrimonio storico, artistico, letterario e ambientale romano, che ha promosso e curato nell’ambito di IL SALOTTO ROMANO. Il prossimo SALOTTO ROMANO è fissato per martedì 8 novembre 2011 presso la BIBLIOTECA VALLICELLIANA, SALONE BORROMINI – Piazza della Chiesa Nuova, 18 – ROMA – Ore 16.30.
Dobbiamo concludere riconoscendo di avere un debito: certi regali così personali non li fa quasi più nessuno. Noi possiamo solo promettere pubblicamente che manterremo la promessa di scrivere un racconto che si incentri sul Tevere per la rivista che lo vede quale costante agitatore di coscienze. Ciò è dovuto quale contributo a Sandro Bari anche per le escursioni che più volte ha affrontato per tutelare il fiume capitolino. Le parole che ci rivolge, quasi un appello a occuparsi di temi che pare spaventino, vorremmo fossero colte come un messaggio a chiunque leggerà.
IL CILENTO DI SANDRO BARI
Care ragazze, non ricordo se vi ho già detto che sono stato Ufficiale di Artiglieria e ho passato un periodo a Persano. Tutti i giorni, finito il servizio, si usciva in esplorazione, in scoperta degli antichi paesi, delle trattorie, delle case ospitali dei contadini, delle chiese dirute, dei monumenti allora abbandonati (come le vecchie ferrovie, i tunnel, le grotte). Eravamo alla fine del 1967. Anni meravigliosi per le scoperte. Erano state appena aperte al pubblico le Grotte di Pertosa, ancora sconosciute a tutti. Lì a Persano faceva il servizio militare, come bersagliere, Alessandro Haber, che stava appena cominciando la sua carriera di attore, pazzo scriteriato, col quale passavamo notti insonni sotto il cielo a cantare alla stelle con la chitarra, a sognare un futuro d’arte, di musica, di teatro, di poesia. Ero reduce dal Folkstudio, quello dei primi anni della fondazione, fucina di canti e tradizioni popolari, dove suonavo già dal 1964: venivano anche Roberto De Simone, Matteo Salvatore, Rosa Balestrieri, e cento altri, ognuno per far conoscere i canti della propria terra. Dunque, troppo avrei da raccontare. A cominciare dalle prime scalate sugli Alburni, alla passione per la speleologia e le esplorazioni delle tante grotte dei dintorni, poi alle mille escursioni in barca e in gommone su tutta la costa, da Agropoli a Capo Vaticano, le risalite del Sele tra funghi e ciclamini, le arrancate in Vespa sul Cervati, le mozzarelle vere (allora) di Padula… insomma, mi parlate di territori che amo da sempre e che hanno preso parte della mia vita, e che allora conoscevo come le mie tasche, da Eboli e Campagna a Altavilla, fino ai laghi della Sila. Se avessi un po’ di tempo per tornarci… sono stato più volte invitato ad Albanella senza riuscire ad andarci… e poi, dovrei sempre scrivere un altro libro per raccontare tutto… Beh, basta lamentarsi e rimpiangere: è cosa da vecchi, e io non lo sono affatto. Ciao, ragazze entusiaste e inesauste, continuate così con la vostra passione, continuate a credere nella forza dell’Uomo che è inesauribile e inarrestabile. Ricordate Kant, nulla esiste di buono al mondo se non una buona volontà. Voi siete sicuramente colme di bontà e avete una sensibilità fuori del comune: ho letto le vostre cose. Meritatevi di più, cercate, fate, dite, scrivete, e, in particolare, non abbiate mai vergogna. In questo mondo becero, in questa epoca priva di valori e condannata all’estinzione per implosione nella sua stessa cattiveria, nella banalità, nell’insipienza, ci vogliono persone come voi. Abbiate forza, abbiate volontà. Credeteci.
Ciao, Sandro
Per correttezza segnaliamo che l’intervento del dr. Sandro Bari ci è giunto tramite mail personale. Essendo anche questa forma di comunicazione tutelata dalla legge, è stata chiesta l’autorizzazione a pubblicarla.
Ecco la risposta: “Carissime, potete pubblicare quello che volete, anche senza tagliare il “pazzo scriteriato” ad Alessandro Haber, che lo era davvero e non potrà mai negarlo. Sapeste quello che combinava a Persano! Follia pura, esercitazioni di grande attore drammatico. Mi dispiace solo che sia un pezzo scritto così, di getto e senza neppure rileggerlo: da buon giornalista, non dovrei… ma poi, la vita è così breve, e chissenefrega di tutto. Il sentimento ha sempre il primo posto. Un giorno, col tempo, scriverò un pezzo per bene raccontando tante avventure su quelle terre stupende. Nel mio prossimo libro…”
Foto: IL MARE – IL GREMBO, scatto di Alessia e Michela Orlando
Andò dappertutto. Spesso travalicò i confini che ora, anche grazie a lui, definiamo nazionali. Comunque la si racconti non si potrà che ammirarlo: ma si è mai vista un’altra trottola come quella? E il suo cavallo bianco si ammalò di labirintite oppure no? E gli altri? Tutti gli altri, che facevano? A parte quelli che si accodavano ai Mille, divenendo sempre di più, gli altri, tutti gli altri, si mettevano seduti, dopo aver sfacchinato ad ammazzare centinaia di polli per lui (ci pare di sentire ancora il loro soffrire, le grida quasi umane, come quelle dei porci a dicembre, gennaio e febbraio, imprigionati e appesi a un palo nei riti tribali celebrati tuttora in molte zone dell’Italia Unita; prima acute e poi volgenti verso l’afonia disperata) e il suo entourage; a spolverare la sedia buona; a rassettare i letti con le lenzuola ricamate; a sostituire il sapone fatto con il grasso delle scrofe e la lavanda, raccolta in agosto sul Cervati. E gli scribacchini, i giornalisti, gli scrittori, le buone penne in genere, che facevano? Anche loro spolverano gli arnesi necessari per la scrittura: penne d’oca (anche il loro starnazzare ci pare di sentire, quello lanciato in aria quando le strappavano le penne dal culo), carta assorbente, boccettine multiformi con nuovo inchiostro nero, le scrivanie in noce o castagno locale, il set delle mille penne di riserva, nuove di zecca e procurate al mercato nero per la bisogna. Ciò che quei cervelli e quelle mani sporche di inchiostro produssero si può leggere in libri, cronache dell’epoca (tutto spesso ristampato in forma anastatica), sulle lapidi nei cimiteri, nelle piazze più rappresentative, sui portali realizzate dai certosini con pietra dolce di Padula. E spesso ritroviamo il tutto nel web. Un esempio? Basta cercare IL GIORNALE DI EBOLI E DELLA PROVINCIA DI SALERNO, DAL 1915.
Grazie alla bibliografia che vi abbiamo rinvenuto, si è cercato L’EPOPEA GARIBALDINA DEL 1860 NELLE MEMORIE SALERNITANE, con illustrazioni e documenti inediti, di GENNARO DE CRESCENZO. Non ci è passato per la mente di andare in una qualsiasi Biblioteca Provinciale; lo abbiamo trovato e sfogliato in una libreria antiquaria: la sua carta ci ha colpito, come il suo odore; lo abbiamo comprato: euro (se preferite: euri): 35,00 (pare sia stato un favore, essendo la prima edizione: giugno 1939). Lo abbiamo letto tutto, anche le note. Tralasciando la labirintite che ci ha colpito in forma acuta (mica siamo il cavallo bianco di Garibaldi, noi. A proposito: vi hanno mai chiesto di che colore fosse il cavallo bianco di Garibaldi?), dobbiamo confessare che lentamente il libro ti prende e ti trasporta in una epoca non ben rappresentata dai libri di storia. Il primo capitolo: Uno sguardo retrospettivo al 1860. Esergo di Matteo Mazziotti (scrittore e politico cilentano): Si levano in alto le luminose immagini purissime di coloro i quali intravidero un nobile ideale, vi consacrarono tutte le energie dell’anima e per esso baldi e sereni dettero in olocausto la vita. Matteo Mazziotti. A questo punto ci rendiamo già conto che la faccenda è seria. Ci schiariamo la voce e proseguiamo a capo chino. Da qui in poi, dalla prefazione, è una serie infinita di nomi e cognomi che abbiamo spesso letto o sentito pronunciare girando per il Cilento (ma anche per la Valle dell’Irno, per Cava de’ Tirreni, per Salerno): vie a loro intestate; libri dedicati; libri scritti; omonimi orgogliosi e impettiti. Ne riportiamo una parte: Giuseppe Abamonte di Caggiano; Carlo Mauri di Buccino, marchese di Polvica; Nicola Maria Rossi di Laurino; il marchese Ferdinando Ruggi, il fratello Antonio e Vincenzo Troisi, G.B. Mazziotti di Celso, Teodosio de Dominicis da Ascea, Ettore Netti e l’avvocato Francesco Notaroberto a Padula, Michele Guida a Montesano sulla Marcellana. Altri forse molto più noti: il generale Giuseppe Schipani, Luigi Ferraioli, Leonino Vinciprova, Stefano Türr, Camillo Benso Conte di Cavour, Giovanni Centola, Francesco Crispi, Ferdinando Della Gattina Putruccelli, Giuseppe Maria Pessolani, Alessandro Dumas… Si potrebbe scrivere fiumi di parole su ognuno di essi. Ci limitiamo a dire qualcosa del Netti, in cui ci siamo imbattute in altri documenti d’epoca: arringò la folla davanti la Certosa di Padula prima dell’arrivo di Carlo Pisacane. Con pochi altri fu ammazzato nei pressi di un convento a Sanza: dove adesso è il cippo che ricorda proprio Carlo Pisacane e i 300 (quelli che erano appunto 300, qualcosa in più, giovani e forti, di Luigi Mercantini) che, dopo lo sbarco a Ponza, furono ammazzati tra Padula e Sanza. Era il 2 luglio 1857.Conosciamo alcuni eredi di parte delle persone nominate (qualcuno ha solo il cognome un po’ modificato per errori degli uffici di anagrafe o per scelta): hanno lo stesso cipiglio; avvertono ancora l’orgoglio: un loro avo c’era e Garibaldi sedette sulla sedia che hanno conservato. Qualcuno la tiene nel bagno. Qualche altra non si rinvenne. Una fu forse bruciata. Di alcuni personaggi è stato scritto moltissimo; per alcuni se ne sono incaricati anche gli avi, che ne hanno seguito passo passo le tracce, ricostruendone la storia. È il caso di Giovanni Matina: Vincenzo Mattina (Enzo per gli amici; già sindaco di Buonabitacolo ed Eurodeputato): ricostruisce anche le modifiche nel cognome. Lo si può verificare qui:
dove Giuseppe D’Amico ci dice anche di Esperanza von Schwartz una scrittrice tedesca, amante di Garibaldi. Luigi Del Bagno aveva tre anni e mezzo quando, nel pomeriggio del 5 settembre 1860, Giuseppe Garibaldi passò per Polla da dove proseguì la sua marcia trionfale che due giorni dopo gli consentì di entrare in Napoli accolto da una folla osannante. Anche a Polla il generale ebbe un’accoglienza calorosissima: nei pressi della storica Taverna del Passo, situata nella via che oggi porta il suo nome, Garibaldi fu salutato da tantissima gente. Lì il piccolo Luigi (…) fu fatto salire sulla carrozza del generale e con lui percorse un breve tratto di strada. Da allora per i suoi concittadini Luigi Del Bagno divenne Luigi di Garibaldi e questo soprannome, ancora oggi, è patrimonio di tutti i suoi discendenti. Naturalmente, l’episodio di Polla non è entrato nei libri di storia ma è una testimonianza importante che conferma come il mito di “un eroe senza tempo e senza confini” fosse già presente nel Vallo di Diano. Una ulteriore conferma viene dal fatto che un giovane legale di Polla, Francesco Galloppo, formò il Battaglione del Tanagro (85 pollesi più altri uomini reclutati nei paesi vicini, per una forza complessiva di 250 volontari) che si distinse nella battaglia del 29 ottobresotto le mura di Capua. Nella storia, invece, sono entrati altri personaggi del Vallo di Diano che combatterono al fianco di Garibaldi (…) È il caso dell’ufficiale Francesco Carrano, imparentato con Giovanni Matina e, come lui, originario di Diano (Teggiano) autore di una Storia d’Italia in quattro volumi (uscita postuma nel 1910). Nel 1860 Francesco Carrano, che in passato aveva combattuto anche a Venezia con Daniele Manin, pubblicò a Torino il libro dal titolo I cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi nella guerra del 1859. Alle pagine 9-86 il libro contiene le Memorie di Garibaldi che il generale aveva affidato a quattro persone di nazionalità diversa: a Teodore Dwight (editore e scrittore americano); ad Esperanza von Schwartz (scrittrice tedesca e amante del generale); ad Alexandre Dumas (romanziere francese) e, appunto, a Francesco Carrano, che aveva avuto rapporti di amicizia anche con Carlo Pisacane, la cui spedizione di Sapri nel 1857, al di là del tragico epilogo, ebbe il merito di mantenere accesa la fiaccola del patriottismo. C’è poi un altro episodio che aveva contribuito non poco a scaldare gli animi dei rivoltosi: nel 1859, in occasione del matrimonio di Francesco II con la principessa Maria Sofia di Baviera, il re Ferdinando II concesse l’esilio a 91 detenuti politici tra i quali vi erano ben dieci salernitani e, tra questi, Michele Aletta di Monte San Giacomo, Vincenzo Dono di Teggiano, Giuseppe Maria Pessolani di Atena Lucana. E proprio il Pessolani fu uno dei tre cittadini del Vallo di Diano che seguirono Garibaldi il Sicilia: gli altri due erano i padulesi Antonio Santelmo e il sacerdote Vincenzo Padula che, purtroppo, cadde nella battaglia di Milazzo.
Padula è: “C’era una volta”… ovvero Sophia Loren che non sapeva “Quanto è bello lu murire acciso”. Potrebbe essere “La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia”.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, molti cilentani cominciarono a scoprire la bellezza del cinema, spesso all’aperto. Nella fantasia di quei ragazzi che affollavano i cinema di paese, la magia scattò presto: la storia vista diveniva la realtà. Ne erano stati aperti in diversi paesi, segnando una novità di rilievo. Erano quelli collocati in piccole sale, con le sedie in legno, dure, che però si dimenticavano appena spente le luci. La maggior parte dei film erano a soggetto bellico; venne, poi, il turno degli spaghetti western. Il soggetto, tutto sommato, contava quasi nulla. Pochi attimi dopo il sopraggiungere del buio, quando le immagini scorrevano sul lenzuolo, oramai erano già tutti volati nelle storie, insieme ai protagonisti. I cilentani potevano tentare di dimenticare il peso della fatica. In seguito, esploso il cosiddetto boom economico, venne il turno dei film realizzati nel Cilento, nel Vallo di Diano.
“C’era una volta” (1967), film favolistico di Franco Rosi, con Sophia Loren e Omar Sharif, che da poco aveva spopolato nel film Il dottor Zivago. Sophia, intenso quanto mai il suo corpo, magistrale la recitazione, coraggiosa nel correre, a esempio, a piedi scalzi sulle stoppie, vive il salto temporale, trasferendoci in una favola, nel Seicento, insieme all’attore che non mancherà di apportare un rilevante contributo di visibilità internazionale e interesse, ma la prima scelta era caduta su Marcello Mastroianni. Una occasione mancata per vedere insieme, per l’ennesima volta, la coppia più amabile della cinematografia italiana. Si può opinare che il Cilento ne sarebbe stato influenzato, se non altro per la dolcezza insita nella figura del Marcello nazionale, che tanti film ha illuminato con la sua gestualità misurata. Il film è arricchito dalla presenza di moltissime comparse selezionate a Padula e tra i paesi limitrofi.
Padula, in: “Quanto è bello lu murire acciso” (prodotto nel 1975; in qualche fonte si indica 1976, che in realtà è l’anno in cui consegue il premio Nastro d’Argento della SNGCI, quale Miglior regista esordiente), soggetto e sceneggiatura di Stefano Calanchi, Aldo De Jaco, Ennio Lorenzini, Gianni Toti, musica di Roberto De Simone, fotografia Gualtiero Manozzi (colore), protagonisti Stefano Satta Flores, Giulio Brogi, Alessandro Haber, Elio Marconato, Angela Goodwin, Bruno Corazzari, Barbara Betti, Raffaele De Luca, Filippo De Gara, Bruno Cattaneo, il regista, Ennio Lorenzini, mette mano all’episodio risorgimentale che il tempo e la tradizione hanno ammantato di valori etici e romantici: l’eccidio di Carlo Pisacane e dei suoi uomini. Quel mini esercito, 347 assoldati, capeggiato da Pisacane, partito da Ponza (molti erano stati liberati dal carcere) e, sbarcato a Sapri, erano andati incontro al tragico destino. Sarebbe stato,che avrebbe, peraltro, cancellata l’idea di promuovere una insurrezione contadina contro i Borboni. Padula e lo scorcio di Vallo di Diano che si percorre andando a Sanza, fu la tomba quasi per tutti loro. L’evento, tragico e previsto da Pisacane, non smorzerà la volontà del popolo, come si può dedurre da una immagine finale in cui si vede un bracciante allontanarsi con il fucili di uno dei patrioti caduti. Altra scena significativa del finale: Pisacane è morto. Lo si vede disteso all’obitorio. È una immagine dal fortissimo impatto che evoca certamente la famosa fotografia di Che Guevara morto, ma è anche l’elemento che spiega come quella di Lorenzini sia una metafora dell’«impresa boliviana di Che Guevara, [che] i rivoluzionari scientifici deplorarono [per] tanta cecità spontaneistica [mentre] i libertari ne fecero un mito.», segnalata anche da Tullio Kezich in Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere.
Il film si segnala anche per l’alta resa della colonna sonora. Qualche nome di chi vi collaborò: Lina Sastri, Virgilio Villani della Nuova Compagnia Canto Popolare, gli esperti Tommaso Bianco e Francesco Tiano, noti artisti di strada. Potentissimo è il brano che assume il titolo da quello del film, sottolineandone i momenti più drammatici e cruenti. Si segnalano anche le note della Marinaresca, forse il più bello, e Massune e Giacubbine, la tipica tarantella ottocentesca, svelata dalla ricerca del Maestro Roberto De Simone.
La Certosa di Padula: “La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia” (1978), si nota sin dal lungo titolo la mano e l’opera di Lina Wertmüller. Il set è, dunque, la Certosa di Padula, anche gli interni, nonché altri spettacolari angoli della città che diede i natali a Joe Petrosino. La gente del posto ricorda ancora la bellezza di Candice Bergen e l’irruenza di Giancarlo Giannini in una scena girata nei pressi di un albero monumentale, nello spiazzale davanti al convento di San Francesco.
È stata, poi, la volta di alcune scene di “Il fantasma dell’Opera” (1988), regista Dario Argento, che hanno visto come set le grotte di Pertosa, note anche come grotte dell’Angelo. Il film è ispirato al romanzo di Gaston Leroux.
Recente e notissimo, invece, è il successo di “Benvenuti al sud”.
Ragazze, che ne dite, ci stareste a creare con me un evento, un concorso di Poesia, per diffondere tra l’opinione pubblica italiana il problema dei cinque detenuti cubani in U.S.A.? Sono i cinque che da oltre 13 anni marciscono in cella per aver svolto attività di spionaggio negli States … EraStefano GUASTELLA, responsabile della Pagina Cultura del web_container Quintavenida, a chiedercelo. Alla sua fiducia, da noi ricambiata in maniera assoluta, grazie a precedenti rapporti culturali, rispondemmo solo: Sì. Lui incalzò: Ci sarebbe da predisporre il Regolamento … Non potevano esserci ostacoli di sorta: quella era una giusta causa per sottrarre tempo ad altre faccende e anche perderci il sonno, qualora fosse stato necessario. Si trattava di relazionarsi con un gruppo di italiani e cubani che da tempo stavano portando avanti una operazione culturale prestigiosa, capace di superare i luoghi comuni italici e cubani, di elaborare, di creare, di sperimentare un nuovo metodo, tramite il web, per rendere concrete le idee.
La faccenda era complessa e qualsiasi approccio, se non ci fosse stata partecipazione, avrebbe potuto lasciare la sensazione di aver combattuto contro i mulini a vento. Non sarebbe stato un buon regalo ai cinque cubani, Gerardo Hernández, René González, Antonio Guerrero, Ramon Labañino, Fernando González, imputati e condannati per aver svolto attività di spionaggio. La loro storia, senza approfondimenti, poteva lasciar pensare a qualcosa di delinquenziale tout court. In realtà essi avevano rischiato la vita per evitare che gli U.S.A. organizzassero attentati nell’isola caraibica. Subita la condanna assurdamente esagerata, scontati molti anni di carcere, una Corte statunitense ne aveva dichiarato l’ingiustizia, eppure si continuava (si continua) a tenerli in carcere. Non era, dunque, un ingenuo vezzo di quattro intellettuali, bensì una battaglia di civiltà, anche giuridica, quella che si stava per affrontare.
Rispondemmo all’invito a lavorare sul Regolamento ancora solo con un Sì e aggiungemmo: Si oscura la montagna/ e ruba il rosso alle foglie dell’autunno. (Yosa Buson,(1715 – 1783) e: Nei campi di neve verdissimo/ il verde delle erbe nuove. (Konishi Raizan,1653 – 1716).
Questi due haiku, poesie giapponesi, lapidarie ma piene di suggestioni, sarebbero diventate il nostro modo per introdurre la comunicazione del concorso. In seguito, sempre su richiesta di Stefano Guastella, costituimmo la Giuria italiana: a integrazione dei nomi nostri e di Stefano Guastella, si aggiunsero in poche ore, avendone avuto immediatamente la disponibilità, Monica PALOZZI, che avrebbe anche coadiuvato Stefano Guastella nella traduzione delle Poesie (Pragmata Edizioni), Joe PERFIUMI (nome d’arte di Carlo CAVALLI uno scrittore dalla vis comica e dalla umanità straordinarie), Paolo FRANCHINI (notissimo scrittore noir che stava dando prova di umanità nel promuovere una antologia, 365 storie cattive, pubblicata in favore dei bambini ammalati di Emiplegia Alternante, malattia rarissima che non interessa né allo Stato, né alla Ricerca: http://www.paolofranchini.tk/, dove si possono trovare anche I PENSIERISMI DI CARLO CAVALLI). Trascorse poche ore era pronta una nostra lirica per introdurre al tema; pochi minuti e Stefano Guastella l’aveva già tradotta in Spagnolo: Prigionieri delle Stelle A Ramón, René, Gerardo, Fernando e Antonio Prisioneros de las Estrellas A Ramón, René, Gerardo, Fernando y Antonio Por estas profundas raíces caribeñas/ Se observa la inmensa urdimbre estrellar/ Aquella estrella prisionera del tiempo que ya no existe/ La libertad es de los álamos que siempre la rozan/ No hay barrera que pueda contener lo bello/ la libertad es/ el encierro fue. Alessia y Michela Orlando, 9 de junio de 2011.
Adesso, a concorso scaduto, si può già dire: la partecipazione è stata straordinaria e gli è stata data visibilità pressoché planetaria. In moltissimi hanno letto le poesie tradotte e pubblicate (non tutte) in varie pagine web. A giorni avremo espresso le liriche vincitrici che saranno pubblicate in forma di e-Book e stampata per le famiglie dei detenuti. Cercheremo di farle avere anche a loro ed è particolarmente emozionante immaginare che possano leggerle.
Faceva freddo quella sera a Laurino. Il tempo inclemente aveva fatto temere risvolti pericolosi all’attore che, in treno, si avvicinava alla meta. Solo, come spesso accade a chi voglia salire i pochi gradini che danno sulle tavole di un palcoscenico. È l’aspetto meno complesso e meno faticoso. Partito dall’Umbria, aveva notato il peggioramento, man mano che si avvicinava a Napoli. Stava portando in giro il Mistero Buffo, testo del Maestro Dario Fo, tra i più noti al mondo. Sapeva che sarebbe stata dura giungere al rinato teatro di Laurino, nel cuore del Cilento. Un volenteroso della associazione che curava le sorti del teatro, chiamato a muovere i primi passi, era andato ad accoglierlo. Era cambiato tutto, in un attimo, per l’attore, grazie alla umanità di quel volto che mai aveva visto prima. Quell’attore: Mario Pirovano, figlioccio di Dario Fo e Franca Rame. Chi lo conosce bene sa che è stato un operaio emigrato a Londra ed è lì aveva potuto fare esplodere la sua passione per il teatro. Se ne andava, ormai da molte sere, a vedere il futuro premio Nobel, ad ammirare il suo grammelot, standosene a bocca spalancata. Non sfuggì al celebre attore quel volto usurato, stanco e fu lui a chiedergli se non stesse esagerando nel buttare soldi stentatamente guadagnati. Fu un colpo di fulmine. Per dieci anni Mario Pirovano ha vissuto con il Maestro Fo e ora è in condizione di portarne in giro i testi per il mondo, di tradurli, di creare altro di suo.
Chi, adesso, in questo attimo, scrivesse a Mario Pirovano, fosse anche solo per dirgli: Come va amico? Riceverebbe questa risposta (testuale):
In effetti, sono molto preso, la situazione è molto brutta per il mio lavoro, come potete bene immaginare … Devo moltiplicare le mie forze. Stò, così, lavorando a due progetti contemporaneamente.
Un progetto con il Francis The Holy Jester in Irlanda a novembre e l’altro, un progetto sul commediografo padovano del 1500, Angelo Beolco, detto Il Ruzzante, che verrà portato in Portogallo a dicembre. Come vedete non mi rimane che “l’esilio”, e meno male che posso recitare in Inglese, se no sarei spacciato! Ora vi saluto. Vi ringrazio che vi siete ricordati di me, vi prego di salutarmi (…) Un caro saluto a tutti voi.Abbracci.Mario Pirovano
Immaginare Mario Pirovano alle prese con due diversi testi, anche se lui se ne duole, per noi è un piacere. La faccenda, per il teatro, in questo momento e in generale, è questa: la crisi economica penalizza il mondo dell’arte; i teatri si svuotano, chiudono; l’autostima di autori e attori si riduce all’osso; verrebbe voglia di fuggire, di scendere da questo pianeta. C’è, però, da confidare nel fatto che chi si sia da sempre confrontato con testi complessi, difficili da tradurre, ccome sono qeullli di Dario Fo, sia capace di affrontare anche i mostri a sette teste. Così preferiamo immaginare Mario Pirovano: lo vediamo mentre indossa il mantello che lo rende imbattibile e impugna la spada; è, adesso, un eroe che, dopo gli inizi travagliati, riempie i teatri. Così vogliamo immaginare quel giovane operaio italiano emigrato che, in Inghilterra, andava ogni sera ad applaudire il Maestro Dario Fo, fino a divenirne figlioccio e acclamato interprete nel mondo. E vogliamo, con lui, abbracciare la Cultura.
La nuova frontiera per la ricerca del lavoro si individua con sempre più forza nel web. Non siamo ancora di fronte alla soluzione definitiva, quella che può fornire occasioni concrete e certe. Non ha ancora, questa opportunità, la forza di eliminare i vecchi meccanismi di reclutamento, quelli influenzati piuttosto dalle amicizie e dalle parentele che dalle capacità e dai curriculum. Se non altro, però, consente a tutti l’accesso alle informazioni. Considerato che il web non è ancora frequentato in maniera globale e diffusa sul territorio cilentano, converrebbe anche fare rete e divulgare spontaneamente le informazioni acquisite anche grazie al tam tam. Il Giornale del Cilento si pone in sintonia con questo meccanismo, che potrebbe diventare virtuoso e utile, e segnala due possibilità concrete. La prima. Si riporta testualmente la notizia così come è giunta, con un link in fondo che si invita a utilizzare per sapere tutto: “NTV – Nuovo Trasporti Viaggiatori è il primo operatore privato italiano sulla rete ferroviaria ad Alta Velocità, il cui presidente Luca Cordero di Montezemolo, insieme a noti imprenditori quali Diego della Valle, Giovanni Punzo ed altri ancora, si appresta a lanciare il servizio a inizio del 2012. Nel panorama imprenditoriale italiano, NTV è una realtà emergente tra le più importanti del momento e, con oltre 650 posizioni aperte, offre numerose opportunità di lavoro. Molteplici sono i profili ricercati con diversi livelli di professionalità, il cui requisito imprescindibile è la conoscenza della lingua inglese. A tale progetto sono legati piani di reclutamento mirati e programmi formativi di altissimo livello. Siamo alla ricerca di talenti e siamo certi che tra i Cittadini del Suo Paese ci siano giovani meritevoli che desiderino entrare in un contesto lavorativo all’avanguardia e dinamico, dove poter sviluppare le proprie potenzialità e realizzare le proprie aspettative professionali.” In particolare le persone interessate potranno trovare tutte le informazioni e inviare la propria candidatura via internet consultando il seguente link: ntvselezionepersonaleoperativo
La seconda. Disney Paris. È ormai un punto di riferimento per numerosi giovani europei e non solo. Considerando i dipendenti che hanno stipulato contratti a tempo determinato (6-8 mesi, ma anche meno per particolari periodo come in occasione di halloween) e quelli che ne hanno sottoscritto a tempo indeterminato, si raggiunge la somma di circa 14.000. Sono molti i giovani di origini campana che vi hanno lavorano e ci lavorano. Qualche notizia. Il Parco divertimenti di Disneyland si trova a 40 Km a est di Parigi. Si compone di 7 alberghi per un totale di 5.700 camere, 2 campi da golf, da 9 e 18 buche; da un parco a tema con un totale di 42 attrazioni; 61 ristoranti e 54 negozi. Inoltre c’è un parco Walt Disney Studios. Chi volesse tentare di lavorarci potrà inviare il proprio curriculum in franceseall’indirizzo: http://disneylandparis-casting.com C’è, inoltre, la pagina facebook, Disneyland Paris Casting: http://www.facebook.com/disneylandpariscasting?v=wall
Per comodità di eventuali interessati, si diffondono notizie sui requisiti occorrenti: – cittadinanza italiana – età 18/30 anni – buona conoscenza della lingua francese – capacità comunicative; requisito preferenziale è l’esperienza a contatto con il pubblico.
Le mansioni variano nell’ambito della ristorazione, nella accoglienza, nella vendita, nelle attrazioni, nella pulizia. Consigli: è richiesta la conoscenza del Francese, come detto, utile quella dell’Inglese, ma se si è versati nel contatto con il pubblico, se si ha una faccia pulita, si hanno comunque delle chance a essere selezionati. Conviene cercare nel web le sedi e le date delle selezioni. Se ne fanno in vari luoghi, anche a Roma.
Dall’angolo prospettico che interessa in questa sede, l’Italia è la somma di un grandissimo numero di siti rilevanti sul piano ambientale, architettonico, archeologico, religioso, culturale, enogastronomico. Una miniera unica al mondo e solo parzialmente sfruttata, forse impossibile da utilizzare appieno, ma che occorrerebbe tentare di valorizzare più decisamente. Basti pensare a quante opere d’arte non si ammirino perché malamente conservate negli scantinati dei musei, ai reperti archeologici che vengono ricoperti per l’impossibilità di restaurarli e proteggerli, ai secoli necessari per recuperare siti di rilevanza mondiale, non solo per carenza di fondi, come Pompei, Paestum, la Certosa di Padula, ma anche per disinteresse del livello politico e dell’imprenditoria. È un fenomeno antico che ha fatto sprofondare nell’oblio opere importantissime e condotto intere zone verso la soglia del definitivo declino. Malgrado l’antico splendore.
Il problema è attuale e riguarda non solo capolavori apprezzabili per gli studiosi e specialisti, ma anche opere e addirittura musei che potrebbero riscuotere successo presso utenti appartenenti a fasce di età giovanili. Un esempio è dato dal Museo dell’illustrazione, inaugurato a Ferrara nel 1993, sfrattato, offerto alla città di Bologna dalla professoressa Paola Pallottino, che ricevette dall’allora sindaco Sergio Cofferati, la seguente testuale risposta: Gentile signora … un nuovo museo comporterebbe un rilevante impegno finanziario non compatibile con le attuale situazioni di bilancio. [1] E, malgrado possano bastare circa settantamila euro all’anno e uno spazio espositivo di 200-250 mq, l’intera raccolta …. resta in cantina in attesa di una second life.[2]
Per fortuna esiste almeno la possibilità di coltivare una sistemazione virtuale su un sito in allestimento[3] e qualche altro spiraglio di speranza si è aperto nel quadro descritto poiché, già da qualche tempo, vi è prova di nuovi stimoli delle Università, degli studiosi, degli operatori turistici, dei politici. Hanno compreso l’importanza economica del turismo definito, genericamente, come “culturale”. L’affermarsi di questa ventata di novità, che non può indurre a facili ottimismi, coincide con la crisi del vecchio modo di fare vacanza: dai primi anni Novanta, il modello turistico incentrato sulla vacanza marittima è stato gradatamente rimpiazzato da altri modelli.
Così si è riscoperta la montagna e l’importanza del movimento. Il rapporto con la flora, la fauna, i fiumi, l’enogastronomia, si è fatto più intenso e diversificato. In questo contesto hanno tratto benefici le aree che potevano offrire alte vette culturali e ambientali. Le stesse, però, hanno dovuto affrontare i problemi connessi alla presenza di molti turisti. Inoltre, è emerso che si è allargata la forbice tra aree dotate di strutture, servizi, disponibilità economiche, sufficiente ricettività alberghiera, buona viabilità e, soprattutto, di un attrattore già noto, principale rispetto ad altre ritenute risorse di supporto, meno note, considerate quindi marginali. Il Legislatore si è posto il problema e i finanziamenti stanziati per i siti attrattori sono stati, in parte esigua, destinati anche ai siti cosiddetti “minori”, collocati nella sua sfera di attrazione.
Tuttavia ciò non è sufficiente, considerando il fenomeno dei residui passivi (si tratta dei finanziamenti che, seppure nella piena disponibilità degli Enti locali, ritornano alla fonte, per non essere stati utilizzati nei termini fissati o per incapacità di rendicontazione) e la mancanza di adeguata attività di promozione turistica, nonché la dilettantesca qualità dell’offerta. È l’ennesima occasione perduta in un panorama, il turismo europeo, in cui altri Paesi si affermano e diventano agguerriti concorrenti, malgrado non abbiano le potenzialità dell’Italia.
I. EVOLUZIONE DEL TURISMO. LE POTENZIALITÀ CILENTANE
Il modo di fare turismo rappresenta materia di indagine preziosa per gli operatori. Essi, dotandosi delle informazioni necessarie, possono individuare le tipologie di turisti che interessano e, per avere più probabilità di successo, modificare le strategie di comunicazione.
Il fenomeno in corso vede la trasformazione della vacanza da ciclo lungo e monotematico, caratteristico e immutato dalla fine dell’Ottocento sino agli anni ’70 del secondo millennio, a cicli turistici intensivi ed eterogenei: varie tipologie si omogeneizzano e così per il medesimo periodo, spesso breve, si programma la spiaggia, l’escursione, la partecipazione a sagre e a manifestazioni culturali, sportive, religiose, la visita ai musei, alle fiere. La scelta dei luoghi e delle iniziative cui partecipare risente, ovviamente, del rapporto qualità-prezzo e non sfugge ai meccanismi di condizionamento da pubblicità e passa parola.
Naturalmente il turista, aderendo, spesso, alle offerte del tour operator, affronta esperienze predeterminate e stressanti che lasciano poco spazio alla scoperta e agli entusiasmi del viaggiatore classico, quello che vuol essere protagonista. Meno aderente a questo modello è l’esperienza del piccolo nucleo di amici o quello familiare; si può, in questo caso, conservare la facoltà di orientare le proprie esperienze con maggiore autonomia e sfruttare il tempo con meno stress da eterorganizzazione. Inoltre, nei viaggi organizzati, il turista difficilmente si fidelizza e, non innamorato di un’area, di un luogo, di una cultura, della stessa gente che lo abita, non ripete la medesima vacanza e non la consiglia. Non crea quel fenomeno noto ai commercianti come avviamento.
Infine, va segnalata la nuova tendenza a destagionalizzare la vacanza. In Italia anche il Ministro per la Cultura, impersonalmente considerato, ha più volte indicato come strategico il fare vacanza in tutte le stagioni. Questa forma di vacanza, considerato che la meta non è più solo il mare, si potrebbe definire “intelligente”. Tra i vari tipi di turismo, negli ultimi decenni, si è affermato quello religioso-culturale congiunto, sulla spinta delle associazioni ambientaliste, al turismo ambientale che, ormai, è il nuovo propellente, quello capace di spingere intere generazioni verso mete considerate integre. Non sarebbe improprio ridefinire questo modo di utilizzare il tempo destinato alla vacanza come “turismo intelligente” tout court. Le caratteristiche di quest’ultima tipologia di turismo sono coniugabili con quelle del cosiddetto turismo religioso che trova una manifestazione consolidata nel pellegrinaggio. Si tratta, come diffusamente documentato, di una forma di turismo antichissima, malgrado non sia stato definito come tale. Si distingue dalla sacra rappresentazione e dalla festa padronale. Nonché dalla processione. Il pellegrinaggio assume, come elemento fondamentale, la forma del viaggio di andata e ritorno. Il viaggio, per diventare esso stesso la forma codificata, essenziale del pellegrinaggio, si incentra, poi, nella sua forma-festa. Non può esserci pellegrinaggio senza viaggio e tra i due viaggi deve racchiudersi la festa. La sacra rappresentazione, invece, è solo una recita e implica un travestimento, mentre la festa padronale assume la forma del festeggiamento corale del santo. Come si può notare, il pellegrino è mosso soprattutto da scelte di valore di tipo culturale: non può che muoversi in un ambiente, uno spazio, con caratteristiche di solito gradite, per avvicinare la meta che non può non essere un monumento naturale o prodotto dall’uomo. Malgrado il “viaggio” sia anche viaggio interiore. La definizione di peregrinus offerta da Isidoro (556-571-4 aprile 636), Vescovo di Siviglia, ci avverte come spesso l’ospite non apprezzi il turista-intruso: “I peregrini sono così chiamati in quanto parentes eorum ignorantur, il che significa si ignora chi siano i loro genitori: vengono infatti da regioni lontane”.[4]
Dunque, già da adesso conviene sottolineare come siano da “educare” sia i turisti che la popolazione ospitante. Questa forma di turismo, ancora attuale, tanto da rendere opportuno il recupero delle antiche “vie della fede”, man mano che è passato il tempo, ha sempre più valorizzato le esigenze materiali del pellegrino-viaggiatore. Sono, così, emerse le potenzialità economiche connesse al viaggio: individualmente il pellegrino ha avvertito l’esigenza di familiarizzare con altri viandanti, con cui condivideva medesime scelte di valore e interessi, per poi intessere relazioni con gli ospiti, scambiare informazioni, cultura, scoprire nuovi gusti, nuove usanze. Infine, di conseguenza, non è apparso disdicevole fare affari.
Ovviamente, nei nostri giorni, la diminuzione del tempo disponibile, la sussistenza dei rischi e i costi del viaggio, nonché la desacralizzazione delle culture, fanno sì che la categoria culturale del pellegrinaggio sia ormai sempre più intrecciata e confusa con quella del turismo, del quale è spesso considerata una specie di sottoclasse, almeno dagli operatori economici del settore che l’inquadrano nel cosiddetto turismo religioso. Un altro carattere distintivo di questa tipologia di turismo è rappresentato dall’approccio verso la meta che dovrebbe essere “dolce”; è un dato non irrilevante affinché lo stesso sviluppo turistico dei siti avvenga tutelandoli e conservando l’integrità culturale degli ospiti. Questo è un fatto considerato fondamentale anche da varie iniziative di promozione.
Un esempio: la manifestazione “Arts & Event” promossa dalla Confesercenti, una sorta di Borsa del Turismo di Ferrara, dal 30 maggio al 2 giugno 2007, la sesta edizione della Borsa del Turismo delle cento città d’arte, impreziosita dal secondo Forum europeo dei siti dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, che affrontò proprio il tema dello sviluppo “dolce” dei siti, improntato ai criteri di tutela e conservazione. Si trattò di una occasione di incontro dell’offerta italiana e quella straniera che vide protagonisti delegazioni di tutto il mondo. Fondamentale la presenza di cento tour operator europei ed extraeuropei, specializzati nell’affermazione turistica dei piccoli centri d’arte che si incontrarono con gli imprenditori nel settore del turismo culturale italiano. In quella edizione della Borsa si intese anche gettare le basi per il coordinamento europeo delle Città e dei siti Unesco patrimonio dell’Umanità. La riuscita della Borsa si conseguì grazie all’intervento del Pubblico e del privato: vi fu la collaborazione della Confesercenti, del Comune di Ferrara, della Provincia, della Camera di Commercio, della Fondazione Cassa di risparmio di Ferrara e dell’Apt.[5]
Ritornando al versante campano del territorio italiano: esso spicca per la quantità e qualità di bellezze ambientali, architettoniche, culturali. Tuttavia, sussiste il problema della tutela e valorizzazione delle aree di interesse ambientale. Da lungo tempo le scelte relative alla gestione di questa ricchezza, sono state episodiche, non inserite in un progetto ampio e duraturo. La pianificazione della gestione delle risorse ambientali non si può esaurire nell’ identificazione delle aree di alto valore naturalistico da proteggere.
È necessario, invece, considerare anche la presenza delle attività umane che hanno valore economico e produttivo. L’istituzione di due parchi nazionali, quello del Vesuvio[6]e quello del Cilento e Vallo di Diano,[7] insieme alla lunga serie di parchi regionali, pongono la Campania all’avanguardia per la vastità di superficie “protetta”. Seppure, con la costituzione dei due parchi nazionali, si sia riconosciuto che, nelle due aree, l’intreccio tra natura e sedimentazioni della “cultura materiale” sia così stretto da non poterli più distinguere, perché la superficie sia davvero protetta, è necessaria una ricognizione approfondita delle risorse territoriali, comprendendo in questo termine sia le risorse umane che naturali.
In Provincia di Salerno, considerata la sua vastità e rilevate le vicende storiche che l’hanno caratterizzata, di cui numerosi segni sono rinvenibili sia nella zona costiera che in quella interna, il lavoro di ricognizione è quanto mai complesso, ma effettuarlo può consentire una più produttiva utilizzazione delle cosiddette “risorse ambientali”. La Provincia, l’Apt e numerosi Comuni, si stanno ponendo in sintonia con questa idea trainante che deve divenire la guida nei prossimi anni e in cui devono credere tutti di più. Anche gli operatori economici. Il lavoro pianificato che tutti insieme svolgeranno, potrà dare ancora più senso alla parola “risorsa”, con cui si indica la possibilità di trasformare in bene economico la potenziale fonte di ricchezza campana, offrendo anche la possibilità di far risorgere il territorio, proteggendolo. Qualsiasi ipotesi di pianificazione non può non tener conto del fatto che il territorio è vario e ricco di suggestioni, ma è anche molto difficile.
Non mancano, infatti, i problemi dovuti all’inquinamento e a una viabilità storicamente carente. Tuttavia, aderendo al senso anglosassone del concetto di “risorse ambientali”, traducibile in amenity resource, con cui si privilegia la definizione dei beni non in termini fisici, bensì in termini economici, si può evidenziare che in provincia di Salerno la combinazione costituita da clima, territorio, paesaggi, risorse idrico-termali, architettura, storia, linguaggio, siti archeologici e religiosi, rappresenti una grandissima potenzialità di amenity resource.
Tutto ciò, ovviamente, non è sufficiente ad attrarre i turisti. Come insegna l’esperienza di altre aree italiane, basti pensare alla costa romagnola, occorre intervenire sull’ambiente urbano che deve caratterizzarsi con una sufficiente dotazione di strutture, attrezzature e servizi.
Il tipo di turismo, quello cosiddetto religioso, che qui si propone come interessante possibilità di sviluppo della provincia di Salerno, mostra di avere le qualità sufficienti perché i turisti vengano in questa zona. Va sottolineata la difficoltà di trasformare scelte episodiche in sviluppo economico.
Pertanto, occorre realizzare un ampio progetto di recupero e valorizzazione dei siti e delle strade, che vanno integrati con attrezzature e servizi moderni ed efficienti. Con questo progetto, riconoscendo che nell’intera provincia di Salerno si è affermata una antica ed evoluta civiltà, simboleggiata da resti archeologici e dal patrimonio storico-architettonico stratificati nei secoli, si dovrebbe valorizzare anche il patrimonio storico-culturale. È il patrimonio costituito da beni culturali e socio-etnografico.
In sintesi, si dovrebbe prevedere anche il recupero della identità della popolazione, non tralasciando la valorizzazione delle attività di artigianato artistico, dell’agricoltura, dei prodotti tipici. Per quanto attiene al patrimonio archeologico, si evidenzia che molte opere sono conservate in strutture museali della regione e sono scarsamente fruibili. Altre sono distribuite in aree di scavo aperte. Si pensi a Cuma, Pompei e, per quanto riguarda la provincia di Salerno, il Cilento in particolare,Paestum, Velia, Roscigno Vecchia… Altre aree sono addirittura non dissepolte, come, a esempio, Teanum e Cosilinum, o di incerta collocazione, come l’antica Cesarianache dovrebbe trovarsi nel territorio di Buonabitacolo-Casalbuono-Montesano sulla Marcellana. Quest’ultima circostanza dovrebbe indurre a riaprire il capitolo della indagine archeologica in varie zone. Rispetto al patrimonio storico-architettonico, va sottolineata la difficoltà di ricostruire la “processualità architettonica” che va misurata con almeno tre parametri: la storia, l’uomo, l’ambiente dove si colloca. In provincia di Salerno, come nel resto della Campania, le dinamiche storiche sono complesse sul piano territoriale (variabilità orizzontale) e temporale (variabilità verticale). Infine, non mancano rilevanti esempi di archeologia industriale. Basti pensare che in Italia i primi ponti di catenariain ferrosono stati costruiti tra il1828 ed il 1835 sui fiumi Garigliano e sul Calore. Anche la linea ferroviaria che da Salerno portava in Calabria, lambendo e attraversando i monti Alburni, il Vallo di Diano, Lagonegro, in disuso dal 1987, può essere considerata interessantissima e capace di contribuire alla valorizzazione dell’ambiente.[8]
Tutte queste opzioni possono fungere da straordinari attrattori turistici. Sia l’archeologia civile che, soprattutto, l’archeologia religiosa, possono attrarre molti turisti ma anche mettere a disposizione della popolazione ampi spazi per importanti manifestazioni culturali. Tuttavia, occorre effettuare con attenzione la scelta del tipo di turista da attrarre e sviluppare una idonea organizzazione turistica. Proprio quest’ultimo elemento appare quasi assente nella provincia di Salerno, anche si notano idee già operative. Si può, in ogni caso, opinare che le opportunità offerte dalla “industria della cultura” non siano state colte che in minima misura, malgrado siano trascorsi due decenni dall’entrata in vigore della cosiddetta legge Ronchey. Con questa normativa si è liberalizzato l’ingresso dei privati nella gestione di diversi servizi nei “beni culturali” di concerto con la direzione di musei, aree archeologiche, assessorati alla cultura, provveditorati agli studi e diocesi. Le opzioni evidenziate, peraltro, possono coordinarsi con altre politiche di settore destinate, a esempio, all’agricoltura ecocompatibile, al turismo cosiddetto sostenibile e aiservizi. Il coordinamento di tutte queste indicazioni, perfettamente integrabili, sono utilizzabili per un concreto modello di sviluppo e per una moderna programmazione ambientale e territoriale.
D’altronde, una pianificazione efficiente e capace di favorire l’affermazione di nuove mete turistiche, consentirebbe il decongestionamento delle aree già troppo sfruttate, tutelando i siti più noti. Potrebbe, quindi, incrementare la produzione di ricchezza, evitando il rischio di distruzione del patrimonio ambientale conseguente all’affermarsi della “società del tempo libero”che, per molti studiosi, sarà la connotazione prevalente del futuro prossimo.
[1] Si veda: E. Marrese, inviato del Venerdì di Repubblica, 6.4.2007, pagg.100-101.
[2] E. Marrese, art.cit..
[3] www.illustrazione.com.
[4] A.Valastro Canale (a cura di) Etimologie o origini_1, pag 761, UTET, Edizione 2006.
[5] Informazioni al sito www.100cities.it.
[6] L’area è fortemente antropizzata ma con scarsa popolazione nel suo interno.
[7]Èventi volte più grande di quello vesuviano, interamente in provincia di Salerno. L’area è scarsamente antropizzata, ma abitata da oltre 235.000 persone, dislocate in 86 comuni; con oltre duecento grotte, sia montane che marine; tante gole come quelle del Calore; importanti inghiottitoi, come quello di Vesalo a Laurino e quello di Morigerati; con una biodiversità singolarissima: flora ricca di lentisco, mirto, corbezzolo, ginepro, cisti, leccete, carrubo, primula palinuri, pino d’Aleppo ed una fauna ricca di volpi, donnole, faine, cinghiali, martore, tassi e, più rari, lupi, gatti selvatici, istrici, la lontra nelle acque del Bussento e del Sammaro e l’aquila reale sul monte Cervati.
[8] Il dato non è sfuggito a Legambiente che, alcuni anni fa, organizzò una passeggiata lungo i binari ed individuò diverse piante officinalis rare. Per approfondimenti si veda: www.lestradeferrate.it.
C’è una febbre benigna che ti prende quando, lontano dalla tua terra, senti qualcosa, può bastare una parola, un odore, uno sguardo, che ti rapisce e ti riporta sui tuoi passi. Se l’hai lasciata da poco è nostalgia pura, ma non è rimpianto. Tuttavia ti basta, puoi capire gli altri, quelli che sono partiti sapendo di non tornare mai più. Non può piacere tutto ciò; non è accettabile l’idea di corpi e menti strappate alle proprie radici. Ci è capitato di poter vivere intensi scambi culturali con Matteo Gazzolo (http://www.myspace.com/matteogazzolo e http://soundcloud.com/suonidiversi), artista a tutto tondo che, dovendo meglio focalizzare-qaulificare, sintetizzi come attore. Approfondisci, per non prendere cantonate, e scopri che ha fatto, abbracciandole con potenza e perizia, mille esperienze. Non potevamo immaginare di ricevere un regalo davvero prezioso: l’immagine più intensa del Cilento costruita solo con le parole, con i ricordi. Ci ha consentito di far riaffiorare alla mente una performance di suo padre: Nando Gazzolo. Le mettiamo entrambe a disposizione dei lettori del Giornale del Cilento, insieme alla intervista che Matteo ci ha reso: una lectio magistralis che speriamo sia letta e studiata dai cilentani che vorranno occuparsi di teatro e non solo.
Matteo Gazzolo: Il Cilento e’ una terra ricca di impressioni e di forza, una terra bellissima nella quale sono passato tante volte nelle lunghe tournee teatrali. Di essa ricordo il cibo e la simpatia della gente, oltre che certi colori e … i limoni … Ho imparato in Norvegia che l’Italia, grazie al famoso “Viaggio in Italia” di Goethe, è chiamata “la terra dove crescono i limoni”. Ecco, quando lo dicono… io corro con la mente verso le terre di cui il Cilento è il cuore. Sì, lo so, parlo da emigrato e da nostalgico, ma non e’ una colpa, vero? Vorrei, però scaldarmi al sole, essere pigro nei pomeriggi d’estate, andare a prendere un gelato fatto con la frutta e tuffarmi tra le onde…
Che ci posso fare?
L’INTERVISTA
D: Ritieni sia utile, Matteo, andare a bottega per apprendere l’arte? R: Sì, molto utile, perche non esiste artista che non abbia imparato gran parte dei suoi tesori da chi è venuto prima di lui. Spesso la sola ispirazione non basta (non bisogna farsi illusioni su questo punto) e chi ci ha preceduto ha certo dovuto affrontare gli stessi nostri ostacoli: che senso avrebbe rifiutare a priori di sapere come ne e’ venuto a capo? E poi, i veri innovatori delle arti, coloro che scoprono e aprono vie nuove, sono pochissimi, e tutti loro hanno divorato le conoscenze precedenti e solo per questo sono riusciti a fare un passo in avanti. Io non smetterò mai di essere curioso, di imparare una cosa nuova. Aggiungo: rubare le tecniche, in arte, è lecito (rubare le idee è pure uno sport assai praticato, ma questa è un’altra storia…).
D: Serve aver conseguito una laurea, o aver programmato di farlo; utile conoscere le Lingue? Quali? R: Cito un ricordo: tanti anni fa frequentavo una importante biblioteca di Roma (ero e sono un lettore incallito). Un giorno mi imbattei in una amica attrice, immersa nella lettura di diversi testi, sparpagliati sul tavolo davanti a lei. Le chiesi cosa leggesse, e lei rispose: “Sto studiando la mia prossima parte”. Cercava, cioè, tutte le informazioni possibili sul suo personaggio e sui vari contesti culturali e storici che ad esso potevano essere connessi. Detto altrimenti, preparava il cibo per la sua creatività, ben prima che cominciassero le prove. Per me, oggi, lo studio e la lettura sono la base di tutto: senza conoscenza, non c’è lavoro per domani. Io ho un curriculum scolastico devastante; la scuola non l’ho amata ed essa, certo, non ha amato me. In ogni caso, mi manca molto una formazione regolare, sistematica e sono costretto a rimettermi in paro di continuo, cosa che però faccio molto volentieri. Una laurea? Non e’ quella che fa un’artista, no affatto, se non hai talento non te lo dà certo una scuola, ma… se lo hai, ti aiuta. Per quanto riguarda le lingue, credo che sia utilissimo conoscerne diverse, non solo l’inglese. Leggere gli autori nelle loro lingue originali, viaggiare e fare spettacoli all’estero, ascoltare gli attori recitare nella loro lingua madre, sono cose preziosissime.
D: La lettura, la frequentazione dei teatri, le amicizie… serve anche tutto ciò? R: Leggere e’ il pane di un attore, sennò è solo un istintivo, una macchinetta che si accende a comando e che non sa nulla di ciò che fa. E poi dalla lettura, e direi solo da essa, scaturiscono le idee per gli spettacoli. Con un amico regista, ci trovavamo più a parlare dei libri che avevamo letto, che non delle cose che avremmo fatto nelle prove, e, guarda caso, le prove erano facilissime ed entusiasmanti. Non vai a teatro? Allora forse il teatro non ti interessa… no? A teatro ci si va volentieri, anche se lo spettacolo poi non ci e’ piaciuto, ma ne parleremo tra noi lo stesso e qualcosa da imparare ne uscirà sempre. Certo, ci sono anche tanti nuovi spettacoli “già visti”, noiosissimi. Le amicizie… beh, da sempre avere amici che contano è l’obiettivo di molti artisti (per non parlare della fame che ne hanno quelli senza alcun talento…), e anche fare “inciuci vari” per avere le parti, o per avere le piazze dove fare spettacolo: così è e così è sempre stato, in teatro… Vediamo la questione da un altro lato: avere tanti amici, amare gli incontri per amore delle persone, ti garantisce un continuo scambio di idee e infinite occasioni di crescita: è bello rimarcare come così si impari tantissimo e nascano progetti nuovi.
D: Teatro: voce corpo silenzi. C’è altro da saper padroneggiare magistralmente? R: Io credo che la cosa più importante per una attore sia di credere nelle proprie capacità e che ami davvero il lavoro che sta realizzando. Una mia insegnante, Beatrice Bracco, alla domanda “Qual e’ la cosa più importante per un attore?”, rispose così: “Sapersi risollevare dopo un errore.” Tecnicamente, invece, risponderei: il suono. Non è la voce un suono? E quante voci “suonano” davvero? Non parlo affatto della semplice bellezza della voce di un attore. La corrente stilistica dominante attualmente, che solo per brevità definirei naturalista, ci ha consegnato voci che parlano perfettamente come nella vita, ma non sono in grado di “suonare” un canto diverso. Il “Cantico delle Creature” di san Francesco, oppure “Paolo e Francesca” di Dante continuano a mozzarmi il fiato per la bellezza del loro canto: certi testi non sono fatti per stare sulla carta, devono però aver qualcosa di più che non la sola voce: il suono.
D: Voce: al di là dei canovacci dialettali (magari con gli accenti delle lingue teatrali per eccellenza: Veneto, Napoletano, Siciliano …) è sempre un problema comunicare le origini che una scuola di dizione affrettata non ha saputo cancellare? R: La voce e la dizione sono due cose diverse. Studiare la voce è sempre più arduo, richiede molto tempo e applicazione, cose spesso rare. La dizione, è molte volte un falso problema per me. Preferisco di gran lunga un attore bravissimo che ha un po’ di accento regionale, a uno che parla come un comunicato stampa ma non mi fa immaginare nulla. La dizione italiana diventa importante, però, quando si affrontano i classici: provate a pensare L’Infinitodi Leopardi letto senza una buona dizione. Ma, per assurdo, la dizione italiana è anche il suono di una lingua che nessuno di noi parla nella vita, che sentiamo solo nei doppiaggi in tv e al cinema. Il che vuol dire che è astratta e se lo è, allora, proprio per questo può avere una grande importanza, proprio per meglio accompagnare gli spettatori fuori dal loro quotidiano, cioè nel mondo del teatro. È una questione molto complessa, in fondo, e richiederebbe una lunga discussione. L’italiano, si può dire, è ancora una lingua misconosciuta se non sulla carta, pochissimo parlata nella sua pura forma.
D: SUONI DIVERSI: Audio Racconti … una declinazione speciale dei radio dramma? R: Si, suonidiversi, che io scrivo tutto attaccato per rimarcare il doppio significato della diversità del suono e del verso poetico che suona, è sicuramente una derivazione della mia infinita ammirazione per la radio. Sono un fedele ascoltatore di Radio 3 Rai, da quando ero adolescente, e il radio dramma ha sempre suscitato in me le immagini interiori della fantasia, mi ha sempre portato altrove da me con grande facilità, e mi ha dato molto da riflettere su me stesso, sulla vita, sul mondo, perché me ne ha dato il tempo… La civiltà dell’immagine è velocissima, mentre la radio è come un libro: richiede tempo e ti fa vivere le cose dentro di te, insomma “il film lo crei tu”… Io riporto questo modulo in teatro: spengo tutte le luci, ascolto il silenzio della sala e lascio che la voce racconti, o legga versi (lavoro sui classici, spessissimo, Dante, Leopardi …), sempre assieme alla musica, la declinazione più alta del suono, che è insieme il mio faro guida e la mia scenografia interiore: il resto avviene nella mente degli spettatori, in totale libertà. Il teatro: io credo non abbia bisogno di grandi effetti speciali per esistere; gli basta un attore e una buona storia da raccontare, il resto è un di più a volte bellissimo, certo, ma il tempo di crisi che stiamo vivendo dovrebbe farci riflettere su cosa è veramente indispensabile e cosa no. Nulla mi creò più delusione, in teatro, che non vedere una vera pioggia cadere sulla scena e vere foglie agitate dal vento. Al cinema è un altro conto; li le parole servono molto meno e le foglie possono volare libere nella pioggia.
D: Qual è la situazione del teatro in Norvegia? R: La Norvegia e’ un paese ricco, che ha investito massicciamente da molti anni sulla cultura e sulla formazione. Senza dilungarmi sul notissimo e nuovissimo spazio del Teatro dell’Opera di Oslo, ricordo di aver visitato una scuola di teatro e danza (sempre a Oslo), realizzata con fondi pubblici, e sono rimasto a bocca aperta per le strutture (nove teatri, contiene), la circolazione continua di insegnanti da tutto il mondo e, soprattutto, per l’orgoglio con cui i norvegesi vivono questi loro spazi. Loro dicono: “Siamo pochi milioni e se non coltiviamo la nostra cultura, sia le radici che la ricerca, siamo destinati a scomparire nella globalizzazione”. Non voglio fare confronti con l’Italia, ma non e’ un caso, affatto, che un paese così piccolo riesca a produrre tanti buoni talenti e a tenere il passo di molti altri giganti. Certo, non è facile fare l’artista in Norvegia, soprattutto per molti giovani che sognano la carriera facile, perché se non sei bravo, se non hai passione e talento, su di te non investono, non ti aprono le porte del paradiso. In Italia, dico solo questo, la classe politica e imprenditoriale non ha ancora capito il valore degli investimenti in cultura, vedono solo i numeri e li vogliono grandi ed esaltanti, non sanno che quei numeri si costruiscono dal basso, che il vivaio è la vita vera del nostro futuro. Esperienze nuove, come quella del Teatro ValleOccupato di Roma, ci forniscono fortunatamente molto materiale serio sul quale riflettere a fondo in materia.
D: Nostalgia dell’Italia, di quale Italia? R: Vado di seguito, quando ho letto cosa stava accadendo a Roma, al Teatro Valle Occupato, ho provato una profonda commozione e una immensa gratitudine verso la vita, che mi ha dato l’occasione di vedere che i semi gettati da tanti artisti, tra i quali io stesso vorrei annoverarmi, che hanno rifiutato l’attuale sistema di gestione della cultura e dei media (nato negli anni ’80), non sono stati vani, né gesti isolati e inutili. Quei ragazzi (e non solo ragazzi), che in totale autonomia hanno capito il vulnus di cui soffre in nostro Paese, ci mostrano come invece sia ricco di bellezza il suo tessuto culturale profondo. Ma occorre tutelare e curare questa bellezza. Essi ci indicano la cultura come “bene comune”, da gestire, per far migliorare la vita di tutti noi. Ecco, di questa Italia ho nostalgia, e di questa Italia io mi sento parte attiva, pur nel piccolissimo contributo che io posso dare. Sono spesso in Italia a lavorare e non credo riuscirò mai a smettere, e non ho timore né della povertà né delle sconfitte, perché c’e’ molto da fare, molto da dare, molto da ricevere, molto da ascoltare: la mia vita e’ stata tutta, in silenzio, dedicata a questo.
D: Del papà? R: Mio padre, mi portò a lavorare in teatro per punirmi da una bocciatura a scuola, e non poté farmi regalo più grande. Il suo severo cipiglio si dileguò subito, quando vide che il pubblico applaudiva le mie piccole apparizioni. Fu tanti anni fa, nel ’77. Da allora, con le fasi alterne che ogni storia famigliare comporta, abbiamo lavorato molte volte assieme, e da lui ho imparato moltissimo. La voce, il suono, i tempi, le idee, le analisi, lo studio, la lettura, così tante cose ho assorbito che non posso dirle tutte. Oggi è molto anziano, e purtroppo non lavora più per problemi fisici, e io viaggio spesso per andare da lui, e ci intratteniamo ore e ore a parlare di Leopardi e di Dante e di Ungaretti, di Quasimodo, di Neruda, di Pasolini, e, sopra ad ogni altro, di William Shakespeare. Che altro posso dire? Imparare è una strada che percorriamo fino al nostro ultimo respiro. Io sono molto grato a mio padre di avermi mostrato questa sua passione e questa sua umiltà, per tutta la vita.