Donato, Patrizio, Domenico Capozzolo: briganti. Il contesto della loro decapitazione e chi davvero erano

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Donato, Patrizio, Domenico Capozzolo: briganti. Il contesto della loro decapitazione e chi davvero erano

Per comprendere meglio il fenomeno del brigantaggio post-unitario e spiegare fenomeni atroci, come quello patito dai fratelli Capozzolo, cilentani di Monteforte, conviene accedere ai documenti dell’epoca e alle cronache sia dei giornali che dei protagonisti. C’è un libro che in qualche modo dà conto di questa impostazione: IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, Aldo De Jaco, Editori Riuniti. È in libro da salvare, che si distingue tra una massa enorme di materiale. Dalla seconda e dalla terza di copertina: «Negli anni ’60 del secolo scorso nel Mezzogiorno italiano c’era una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincee e retrovie. Dei due eserciti quello “vero”, con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino, se ne stava di presidio nei paesi, isolato come fosse nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e, quasi sempre, un figlio o un fratello fra le montagne a tener testa agli “invasori”. Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche “reazione agraria” di qualche “ribellione borbonica” e accorreva di zona in zona, sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte. Dai boschi e dalle montagne scendeva allora ad affrontarlo l’esercito silenzioso dei briganti. Nei paesi intanto si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto, i saccheggi delle case dei “galantuomini”, si instauravano effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all’esiliato Borbone. Tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri, uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, dai vestiti fatti di pelli. […] Questa “guerra” durò per circa cinque anni; difficile dire il giorno in cui essa cessò del tutto giacché, naturalmente, non fu firmato alcun armistizio. Si può dire che finì quando nelle selve incendiate e semidistrutte a colpi di cannone non rimasero che poche decine di banditi mentre nelle carceri o a domicilio coatto migliaia di contadini d’Abruzzo, di Puglia, di Terra di Lavoro, di Basilicata, di Calabria, incominciavano a scontare le loro condanne […]. Lo Stato appena sorto impegnò nella repressione dei “reazionari” metà del suo esercito, circa 120.000 uomini. Il destino del contadino meridionale si delineava ormai nell’alternativa indicata da Francesco Saverio Nitti: o brigante o emigrante.»

Tutto si fonda su documenti. Prima, però, c’è l’Introduzione; prima ancora c’è l’Indice; prima ancora c’è ROCCO SCOTELLARO:

Non gridatemi dentro,

 non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!

Che all’ilare tempo della sera

s’acquieti il vostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

Le teste dei briganti, e la caverna,

l’oasi verde della triste speranza,

lindo conserva un guanciale di pietra.

Ma nei sentieri non si torna indietro.

Altre ali fuggiranno

Dalle paglie delle cova,

perché lungo il perire dei tempi

l’alba è nuova, è nuova. 

E forse si potrà pensare che la forza da Rocco impressa a  certe immagini serva a dare corpo, drammaticità, a una storia che fu appunto tale, drammatica, dal primo attimo fino alla fine. Fino alla fine di tutto. Non è così. Si parla di storia, dunque di documenti e testimonianze inconfutabili; si parla di corpi bruciati, smembrati, mangiati addirittura; di teste tagliate e lasciate infilzate nei pali, al sole, quale pasto sanguinolente per le mosche. Un esempio furono le tre teste dei fratelli Capozzolo: Donato, Patrizio, Domenico. Ne dà conto anche Rosario Villari in: Il Risorgimento: I Capozzoli erano nel frattempo tornati nel Cilento, dove sembrava che le acque si fossero calmate. Ma su di loro era stata emessa una taglia, e il 17 giugno 1829 furono traditi da un amico, che durante una festa di nozze ne denunciò la presenza alla polizia. Circondati da 60 gendarmi borbonici, tentarono una strenua resistenza, ma alla fine furono costretti ad arrendersi. Il 27 giugno fu eseguita anche per loro la condanna capitale. Ma l’orrore non aveva ancora fine: le loro teste mozzate furono infatti esposte nella pubblica piazza, come monito eloquente, e lì rimasero fino al 1860. Il colonnello del Carretto, invece, fu premiato dal re Francesco I per aver represso il moto e punito gli insorti, con la promozione a generale e la croce di cavaliere.

È necessario chiedersi chi davvero fossero i fratelli Capozzolo, per meglio comprendere i contorni del dramma e i risvolti politici. Non erano i classici cafoni, bensì ricchi possidenti di Monteforte. Erano sfuggiti alla polizia borbonica dopo il rientro di Ferdinando e vivevano alla macchia sui monti con tanti altri disperati. Era gente che poteva vivere nella prosperità, ma, convinti nella loro idea liberale, lottavano per una Costituzione, quella di Francia. La si ottenne: era il 28 giugno del 1828 e dal villaggio di Bosco si diede il La a un processo rivoluzionario. A pronunciare parole di incitazione, nella chiesa del villaggio, fu il canonico DE LUCA. FRANCESCO I, appena seppe della rivolta, conferì l’incarico di reprimerla, con pieni poteri, al colonnello siciliano FRANCESCO SAVERIO del CARRETTO, comandante supremo della gendarmeria. Questi giunse con un buon nucleo di soldati nella provincia insorta e intervenne prima che i sollevati potessero organizzare qualsiasi difesa. I villaggi che avevano innalzato il vessillo della rivolta furono distrutti. Bosco, fu oggetto di una cancellazione anche geografica, come emerge dal decreto che lo stabilì: soppressione del comune di Bosco nel circondario di Cammarota. Il suo nome sarà cancellato dall’albo dei Comuni del Regno. Gli abitanti potranno fissare il loro domicilio o in San Giovanni in Piro o dovunque a loro piaccia; ma né loro né altri non potranno mai ricostruire più le abitazioni che formavano l’aggregato di quel Comune, né in quel sito ove esisteva, né in nessun altro luogo anche se antico“.

L’incipit della Introduzione di IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE:

Il castello di Lagopesole è deserto. Il cortile è un pozzo d’ombra protetto da alte  mura; fuori la luce accecante del sole disfa le linee dei colli intorno, la grande vallata, i grumi di case contadine ai crocicchi delle strade. Il castello è un cubo di pietra spoglia, in cima al colle più alto; intorno, come un collare, ha una decina di casupole ammucchiate fra i sassi. Un incerto scalpellino ha tracciato sulla pietra del portale due file di lettere:

negando la verità/ si hanno dispiaceri

e ancora:

Dio precettò / dire la verità per avere giustizia.

La verità. Eccola: Sul Corriere lucano del 6 giugno 1861 questo posto era indicato come il covo principale dei «briganti reazionari». «In nome di Dio – diceva il giornale – ricordiamo alle nostre autorità civili e militari l’importanza  terribile del castello di Lagopesole. Qui è il covo dei briganti i quali devono trovare tanto di protezione  colà, presso quelle capanne, in quanto che ivi abita la famiglia del famigerato Ninco Nanco…».

(…) Questi sono i fatti; ma la verità, qual è la verità? Chi erano, cosa volevano, perché combattevano i    «briganti» di Lagopesole? Anche dopo cento anni, girando per le casupole di Lagopesole, si rinvengono due verità. Quella vera, lentamente, si afferma ed emerge da questo bellissimo libro. Anche dalle illustrazioni allegate dopo la fine delle 351 pagine di testo. Si inizia dal volto del capobrigante Carmine Crocco Donatelli; si passa attraverso documenti in fotocopia; un foglio di un cantastorie fiorentino, in cui si narra della vita e della morte del brigante Chiavone; la “legge Pica” promulgata il 15 agosto 1863, con cui si mise a ferro e fuoco il sud, si dispose la repressione di massa e i processi in tribunale militare; il corpo e l’elegante postura di Michelina De Cesare (la si vede anche nuda, appena uccisa), compagna di Francesco Guerra, armata fino ai denti, per finire con il volto severo di Pasquale Villari.

Questo è il contesto che ha fatto dire a Antonio Gramsci: Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.

 Lo stesso che a Carmine Crocco Donatelli aveva fatto già dire: E intorno a noi il timore e la complicità di un popolo. Quel popolo che disprezzato da regi funzionari ed infidi piemontesi sentiva forte sulla pelle che a noi era negato ogni diritto, anche la dignità di uomini. E chi poteva vendicarli se non noi, accomunati dallo stesso destino? Cafoni anche noi, non più disposti a chinare il capo. Calpestati, come l’erba dagli zoccoli dei cavalli, calpestati ci vendicammo. Molti, molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni. Le loro rivoluzioni. Ma libertà non è cambiare padrone. Non è parola vana ed astratta. È dire senza timore, È MIO, e sentire forte il possesso di qualcosa, a cominciare dall’anima. È vivere di ciò che si ama. Vento forte ed impetuoso, in ogni generazione rinasce. Così è stato, e così sempre sarà

La foto: Michelina De Cesare, brigantessa.

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