Stupro: del coraggio di guardare in faccia la realtà

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Stupro: del coraggio di guardare in faccia la realtà

 (IL CORPO DELLE DONNE, scatto di Alessia e Michela Orlando)

Del piacere di raccontare la verità, anche la più atroce, di questo si deve trattare volendo approfondire i l tema della violenza sulla donna, sugli omosessuali, sui bambini. Nel Codice di Hammurabi, re di Babilonia (2285-2242 a.C.), al rigo 129, si può leggere per la prima volta di stupro. Purtroppo non è esente da profili assolutamente inaccettabili, evidentemente sessisti: recita che se la vittima dell’aggressione era una donna coniugata, vittima e aggressore dovevano essere puniti allo stesso modo come adulteri, per mezzo di annegamento; il marito, se magnanimo, poteva perdonare la moglie. Al successivo rigo 130 si dettava che se la vittima era una giovane ancora non coniugata, va da sé come sia inevitabile dedurre che fosse vergine, si prevedeva la condanna a morte per il solo aggressore. Non erano, dunque, rilevanti le circostanze: tutto si incentrava sullo stupro, sulle condizioni anagrafiche e sullo stato civile della vittima. Una verità che non era difficile accertare.

Di contro, e più recentemente, il drammaturgo e poeta William Shakespeare, nel suo Re Lear, relativamente alle sofferenze umane fa dire a Edgardo: “Quando vediamo uomini a noi superiori che sopportano gli stessi nostri mali, non possiamo quasi più considerare nostre nemiche le nostre miserie. Chi soffre solo, soffre soprattutto nell’animo, lasciandosi alle spalle immagini di felicità e di gioia; ma lo spirito può sopportare molti dolori, quando si hanno compagni nel sopportare la nostra pena.”

In Otello, invece, quasi come una risposta, la voce di Iago echeggia: “Che eresia! Sono sette per quattro anni che medito sulle cose del mondo. E da quando ho imparato a distinguere un benefizio da un sopruso, non ho trovato un sol uomo che sapesse volersi bene.” E il Buffone, di nuovo nel Re Lear, irrompendo sul tema della verità, sbotta in un: “La verità è un cane da chiudere in canile.”

Sulla verità, sulle difficoltà che si incontrano nel suo di-svelare, dunque, hanno speso il loro tempo anche grandi letterati ed è certamente un tema tanto attuale quanto rilevante, sia sul piano sociale che individuale.
Non mancano ragioni per dire quanto sia difficile rinvenirla e non manca neppure chi pensi che la verità non esista. Tuttavia, non può che svelarsi grazie a domande, a molte domande. E quelle giuste da porsi, affinché si possa almeno tentare di ricostruirla davvero tutta, o nella maggior misura possibile, non possono essere troppo pensate; forse non è opportuno neppure che siano troppo lunghe e articolate. È altresì necessario adottare un linguaggio esplicito.

La terminologia elegante e forbita sdrammatizza i fatti tragici e anche volendo raccontare in un romanzo della violenza sulle donne non bisognerebbe mai cadere nella trappola della voglia della bella parola per occultare, senza volerlo, la gravità. Nel narrare, dunque, qualora si tratti di violenza sessuale, non è l’atto del “defloráre” che si racconta. “Deflorare” è un termine che edulcora la gravità del fatto, ed è tanto antico quanto profondamente bello. Significa “togliere il fiore, il meglio” e ha il senso di “togliere a una donna la verginità”. Sul piano etico, per la violenza che si pretenderebbe narrare, sarebbe sempre da preferirsi il più pertinente il termine “stupro”. Occorre, dunque, avere il coraggio di guardare la realtà e anche i personaggi della narrativa dovrebbero averlo, sempre, e ciò non significa certo che siano ritornate le streghe. Potrebbe solo essere l’auspicabile inizio di un nuovo e più giusto Umanesimo.

 

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