Matteo Gazzolo: il suo ricordo del Cilento, l’arte della parola, la magia del teatro

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Matteo Gazzolo: il suo ricordo del Cilento, l’arte della parola, la magia del teatro

C’è una febbre benigna che ti prende quando, lontano dalla tua terra, senti qualcosa, può bastare una parola, un odore, uno sguardo, che ti rapisce e ti riporta sui tuoi passi. Se l’hai lasciata da poco è nostalgia pura, ma non è rimpianto. Tuttavia ti basta, puoi capire gli altri, quelli che sono partiti sapendo di non tornare mai più. Non può piacere tutto ciò; non è accettabile l’idea di corpi e menti strappate alle proprie radici. Ci è capitato di poter vivere intensi scambi culturali con Matteo Gazzolo (http://www.myspace.com/matteogazzolo e http://soundcloud.com/suonidiversi), artista a tutto tondo che, dovendo meglio focalizzare-qaulificare, sintetizzi come attore. Approfondisci, per non prendere cantonate, e scopri che ha fatto, abbracciandole con potenza e perizia, mille esperienze. Non potevamo immaginare di ricevere un regalo davvero prezioso: l’immagine più intensa del Cilento costruita solo con le parole, con i ricordi. Ci ha consentito di far riaffiorare alla mente una performance di suo padre: Nando Gazzolo. Le mettiamo entrambe a disposizione dei lettori del Giornale del Cilento, insieme alla intervista che Matteo ci ha reso: una lectio magistralis che speriamo sia letta e studiata dai cilentani che vorranno occuparsi di teatro e non solo.      

Matteo Gazzolo: Il Cilento e’ una terra ricca di impressioni e di forza, una terra bellissima nella quale sono passato tante volte nelle lunghe tournee teatrali. Di essa ricordo il cibo e la simpatia della gente, oltre che certi colori e … i limoni … Ho imparato in Norvegia che l’Italia, grazie al famoso “Viaggio in Italia” di Goethe, è chiamata “la terra dove crescono i limoni”. Ecco, quando lo dicono… io corro con la mente verso le terre di cui il Cilento è il cuore. Sì, lo so, parlo da emigrato e da nostalgico, ma non e’ una colpa, vero? Vorrei, però scaldarmi al sole, essere pigro nei pomeriggi d’estate, andare a prendere un gelato fatto con la frutta e tuffarmi tra le onde…

Che ci posso fare?


L’INTERVISTA

D: Ritieni sia utile, Matteo, andare a bottega per apprendere l’arte?
R: Sì, molto utile, perche non esiste artista che non abbia imparato gran parte dei suoi tesori da chi è venuto prima di lui. Spesso la sola ispirazione non basta (non bisogna farsi illusioni su questo punto) e chi ci ha preceduto ha certo dovuto affrontare gli stessi nostri ostacoli: che senso avrebbe rifiutare a priori di sapere come ne e’ venuto a capo? E poi, i veri innovatori delle arti, coloro che scoprono e aprono vie nuove, sono pochissimi, e tutti loro hanno divorato le conoscenze precedenti e solo per questo sono riusciti a fare un passo in avanti. Io non smetterò mai di essere curioso, di imparare una cosa nuova. Aggiungo: rubare le tecniche, in arte, è lecito (rubare le idee è pure uno sport assai praticato, ma questa è un’altra storia…).

D: Serve aver conseguito una laurea, o aver programmato di farlo; utile conoscere le Lingue? Quali?
R: Cito un ricordo: tanti anni fa frequentavo una importante biblioteca di Roma (ero e sono un lettore incallito). Un giorno mi imbattei in una amica attrice, immersa nella lettura di diversi testi, sparpagliati sul tavolo davanti a lei. Le chiesi cosa leggesse, e lei rispose: “Sto studiando la mia prossima parte”. Cercava, cioè, tutte le informazioni possibili sul suo personaggio e sui vari contesti culturali e storici che ad esso potevano essere connessi. Detto altrimenti, preparava il cibo per la sua creatività, ben prima che cominciassero le prove. Per me, oggi, lo studio e la lettura sono la base di tutto: senza conoscenza, non c’è lavoro per domani. Io ho un curriculum scolastico devastante; la scuola non l’ho amata ed essa, certo, non ha amato me. In ogni caso, mi manca molto una formazione regolare, sistematica e sono costretto a rimettermi in paro di continuo, cosa che però faccio molto volentieri. Una laurea? Non e’ quella che fa un’artista, no affatto, se non hai talento non te lo dà certo una scuola, ma… se lo hai, ti aiuta. Per quanto riguarda le lingue, credo che sia utilissimo conoscerne diverse, non solo l’inglese. Leggere gli autori nelle loro lingue originali, viaggiare e fare spettacoli all’estero, ascoltare gli attori recitare nella loro lingua madre, sono cose preziosissime.

D: La lettura, la frequentazione dei teatri, le amicizie… serve anche tutto ciò?
R: Leggere e’ il pane di un attore, sennò è solo un istintivo, una macchinetta che si accende a comando e che non sa nulla di ciò che fa. E poi dalla lettura, e direi solo da essa, scaturiscono le idee per gli spettacoli. Con un amico regista, ci trovavamo più a parlare dei libri che avevamo letto, che non delle cose che avremmo fatto nelle prove, e, guarda caso, le prove erano facilissime ed entusiasmanti. Non vai a teatro? Allora forse il teatro non ti interessa… no? A teatro ci si va volentieri, anche se lo spettacolo poi non ci e’ piaciuto, ma ne parleremo tra noi lo stesso e qualcosa da imparare ne uscirà sempre. Certo, ci sono anche tanti nuovi spettacoli “già visti”, noiosissimi. Le amicizie… beh, da sempre avere amici che contano è l’obiettivo di molti artisti (per non parlare della fame che ne hanno quelli senza alcun talento…),  e anche fare “inciuci vari” per avere le parti, o per avere le piazze dove fare spettacolo: così è e così è sempre stato, in teatro… Vediamo la questione da un altro lato: avere tanti amici, amare gli incontri per amore delle persone, ti garantisce un continuo scambio di idee e infinite occasioni di crescita: è bello rimarcare come così si impari tantissimo e nascano progetti nuovi.

D: Teatro: voce corpo silenzi. C’è altro da saper padroneggiare magistralmente?
R: Io credo che la cosa più importante per una attore sia di credere nelle proprie capacità e che ami davvero il lavoro che sta realizzando. Una mia insegnante, Beatrice Bracco, alla domanda “Qual e’ la cosa più importante per un attore?”, rispose così: “Sapersi risollevare dopo un errore.” Tecnicamente, invece, risponderei: il suono. Non è la voce un suono? E quante voci “suonano” davvero? Non parlo affatto della semplice bellezza della voce di un attore. La corrente stilistica dominante attualmente, che solo per brevità definirei naturalista, ci ha consegnato voci che parlano perfettamente come nella vita, ma non sono in grado di “suonare” un canto diverso. Il “Cantico delle Creature” di san Francesco, oppure “Paolo e Francesca” di Dante continuano a mozzarmi il fiato per la bellezza del loro canto: certi testi non sono fatti per stare sulla carta, devono però aver qualcosa di più che non la sola voce: il suono.

D: Voce: al di là dei canovacci dialettali (magari con gli accenti delle lingue teatrali per eccellenza: Veneto, Napoletano, Siciliano …) è sempre un problema comunicare le origini che una scuola di dizione affrettata non ha saputo cancellare?
R: La voce e la dizione sono due cose diverse. Studiare la voce è sempre più arduo, richiede molto tempo e applicazione, cose spesso rare. La dizione, è molte volte un falso problema per me. Preferisco di gran lunga un attore bravissimo che ha un po’ di accento regionale, a uno che parla come un comunicato stampa ma non mi fa immaginare nulla. La dizione italiana diventa importante, però, quando si affrontano i classici: provate a pensare L’Infinito di Leopardi letto senza una buona dizione. Ma, per assurdo, la dizione italiana è anche il suono di una lingua che nessuno di noi parla nella vita, che sentiamo solo nei doppiaggi in tv e al cinema. Il che vuol dire che è astratta e se lo è, allora, proprio per questo può avere una grande importanza, proprio per meglio accompagnare gli spettatori fuori dal loro quotidiano, cioè nel mondo del teatro. È una questione molto complessa, in fondo, e richiederebbe una lunga discussione. L’italiano, si può dire, è ancora una lingua misconosciuta se non sulla carta, pochissimo parlata nella sua pura forma.

D: SUONI DIVERSI: Audio Racconti … una declinazione speciale dei radio dramma?
R: Si, suonidiversi, che io scrivo tutto attaccato per rimarcare il doppio significato della diversità del suono e del verso poetico che suona, è sicuramente una derivazione della mia infinita ammirazione per la radio. Sono un fedele ascoltatore di Radio 3 Rai, da quando ero adolescente, e il radio dramma ha sempre suscitato in me le immagini interiori della fantasia, mi ha sempre portato altrove da me con grande facilità, e mi ha dato molto da riflettere su me stesso, sulla vita, sul mondo, perché me ne ha dato il tempo… La civiltà dell’immagine è velocissima, mentre la radio è come un libro: richiede tempo e ti fa vivere le cose dentro di te, insomma “il film lo crei tu”… Io riporto questo modulo in teatro: spengo tutte le luci, ascolto il silenzio della sala e lascio che la voce racconti, o legga versi (lavoro sui classici, spessissimo, Dante, Leopardi …), sempre assieme alla musica, la declinazione più alta del suono, che è insieme il mio faro guida e la mia scenografia interiore: il resto avviene nella mente degli spettatori, in totale libertà. Il teatro: io credo non abbia bisogno di grandi effetti speciali per esistere; gli basta un attore e una buona storia da raccontare, il resto è un di più a volte bellissimo, certo, ma il tempo di crisi che stiamo vivendo dovrebbe farci riflettere su cosa è veramente indispensabile e cosa no. Nulla mi creò più  delusione, in teatro, che non vedere una vera pioggia cadere sulla scena e vere foglie agitate dal vento. Al cinema è un altro conto; li le parole servono molto meno e le foglie possono volare libere nella pioggia.

D: Qual è la situazione del teatro in Norvegia?
R: La Norvegia e’ un paese ricco, che ha investito massicciamente da molti anni sulla cultura e sulla formazione. Senza dilungarmi sul notissimo e nuovissimo spazio del Teatro dell’Opera di Oslo, ricordo di aver visitato una scuola di teatro e danza (sempre a Oslo), realizzata con fondi pubblici, e sono rimasto a bocca aperta per le strutture (nove teatri, contiene), la circolazione continua di insegnanti da tutto il mondo e, soprattutto, per l’orgoglio con cui i norvegesi vivono questi loro spazi. Loro dicono: “Siamo pochi milioni e se non coltiviamo la nostra cultura, sia le radici che la ricerca, siamo destinati a scomparire nella globalizzazione”. Non voglio fare confronti con l’Italia, ma non e’ un caso, affatto, che un paese così piccolo riesca a produrre tanti buoni talenti e a tenere il passo di molti altri giganti. Certo, non è facile fare l’artista in Norvegia, soprattutto per molti giovani che sognano la carriera facile, perché se non sei bravo, se non hai passione e talento, su di te non investono, non ti aprono le porte del paradiso. In Italia, dico solo questo, la classe politica e imprenditoriale non ha ancora capito il valore degli investimenti in cultura, vedono solo i numeri e li vogliono grandi ed esaltanti, non sanno che quei numeri si costruiscono dal basso, che il vivaio è la vita vera del nostro futuro. Esperienze nuove, come quella del Teatro Valle Occupato di Roma, ci forniscono fortunatamente molto materiale serio sul quale riflettere a fondo in materia.

D: Nostalgia dell’Italia, di quale Italia?
R: Vado di seguito, quando ho letto cosa stava accadendo a Roma, al Teatro Valle Occupato, ho provato una profonda commozione e una immensa gratitudine verso la vita, che mi ha dato l’occasione di vedere che i semi gettati da tanti artisti, tra i quali io stesso vorrei annoverarmi, che hanno rifiutato l’attuale sistema di gestione della cultura e dei media (nato negli anni ’80), non sono stati vani, né gesti isolati e inutili. Quei ragazzi (e non solo ragazzi), che in totale autonomia hanno capito il vulnus di cui soffre in nostro Paese, ci mostrano come invece sia ricco di bellezza il suo tessuto culturale profondo. Ma occorre tutelare e curare questa bellezza. Essi ci indicano la cultura come “bene comune”, da gestire, per far migliorare la vita di tutti noi. Ecco, di questa Italia ho nostalgia, e di questa Italia io mi sento parte attiva, pur nel piccolissimo contributo che io posso dare. Sono spesso in Italia a lavorare e non credo riuscirò mai a smettere, e non ho timore né della povertà né delle sconfitte, perché c’e’ molto da fare, molto da dare, molto da ricevere, molto da ascoltare: la mia vita e’ stata tutta, in silenzio, dedicata a questo.

D: Del papà?
R: Mio padre, mi portò a lavorare in teatro per punirmi da una bocciatura a scuola, e non poté  farmi regalo più grande. Il suo severo cipiglio si dileguò subito, quando vide che il pubblico applaudiva le mie piccole apparizioni. Fu tanti anni fa, nel ’77. Da allora, con le fasi alterne che ogni storia famigliare comporta, abbiamo lavorato molte volte assieme, e da lui ho imparato moltissimo. La voce, il suono, i tempi, le idee, le analisi, lo studio, la lettura, così tante cose ho assorbito che non posso dirle tutte. Oggi è molto anziano, e purtroppo non lavora più per problemi fisici, e io viaggio spesso per andare da lui, e ci intratteniamo ore e ore a parlare di Leopardi e di Dante e di Ungaretti, di Quasimodo, di Neruda, di Pasolini, e, sopra ad ogni altro, di William Shakespeare. Che altro posso dire? Imparare è una strada che percorriamo fino al nostro ultimo respiro. Io sono molto grato a mio padre di avermi mostrato questa sua passione e questa sua umiltà, per tutta la vita.

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