I racconti di Orazio Ruocco: “Bambinello, bello,bello…”

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I racconti di Orazio Ruocco: “Bambinello, bello,bello…”

Cominciamo questo viaggio nel passato insieme a Orazio Ruocco, storie raccontate con sagacia e acume da questo attento osservatore della cultura e dei costumi di una Marina degli anni ’60 quando tutto era più genuino. Questo è il primo di una serie di racconti scritti da Orazio. Avvertenza dell’autore: Cara lettrice e caro lettore, se hai voglia di perdere 13 minuti e 30 secondi (tanti ne occorrono) del tuo tempo, allora inizia a leggere. Io ti ho avvertito e alla fine… non volermene! “Bambinello, bello,bello…” “Vorrei avere la lingua di Dante, il pennello di Giotto,l’arpa di un Serafino, per descrivere, per dipingere e per cantare la bellezza di quella notte santa, quella notte stellata…”. E’ l’inizio pomposo dell’omelia della notte di Natale che, soprattutto noi studenti, sapevamo già quasi tutta a memoria. Ma no!no! non equivocate, non l’avevamo scritta noi per passarla poi al celebrante. Noi facevamo solo la scommessa che quello, come ogni anno, sarebbe stato l’incipit della predica della liturgia natalizia. Il sospetto era più che fondato e ve ne spiego l’arcano. Da qualche anno, come l’avvento promesso del Bambino Gesù, puntualmente veniva invitato per le feste natalizie Padre Eusebio, un frate Passionista, predicatore itinerante per vocazione, appartenente ad una congregazione che, come ministero loro proprio, si dedica precipuamente alla predicazione. Era ormai un’istituzione. Natale non era Natale se non arrivavano il Bambin Gesù e Padre Eusebio. Era benvoluto da tutti e almeno una volta in quei giorni doveva essere ospite in una casa per un pranzo o una cena. Ecco perché i giorni di Natale dei primissimi anni 60 si confondono quasi completamente con la sua figura, il suo modo di discorrere tipico della bassa Ciociaria, con il suo mantello simile a quello di Zorro, con i suoi sandali di cuoio e, per l’appunto, con quella sua predica. Salito sul pulpito e agitando le braccia come nuotasse nell’aria iniziava invariabilmente in questo modo la sua predica. Giocoforza che con gli anni quel discorso entrasse nella mente e nella memoria. Nessuna festività religiosa, come questa, convocava in chiesa tante ragazze, e i giovani, astraendosi dalla liturgia in atto, approfittavano di questo passaggio della messa per lanciare a qualcuna occhiate furtive e fugaci, che qualche volta assumevano la profondità di vere e proprie radiografie … Si spostavano nelle due navate laterali cercando il posticino più propizio per far giungere alla fanciulla amata i loro messaggini aerei fatti di dolci e languidi sguardi. La ragazza, con tanto di velo in testa, cercava molto timidamente di dissimulare qualsiasi atteggiamento che tradisse interesse per quei teneri segnali amorosi, quali un timido sorrisino o morsettini nervosi delle labbra. Tutto questo per evitare di commettere quelli che ancora venivano considerati peccati. Ma quali peccati? Ma i peccati dettati dalla tenera inclinazione che conducono naturalmente un uomo verso una donna e viceversa, specie se commessi durante la messa. A tal proposito i preti mettevano in guardia la gioventù e la invitava a tenersi lontano dalle tentazioni del diavolo soprattutto in chiesa. – “Farfariello (come bonariamente chiamava satana il parroco di allora Don Crispino) si infila dappertutto”. ammoniva. – “Arciprè, ma pure ‘nda chiesa, possibbele?” chiedeva qualcuno ingenuamente o, chissà, facendo il fimto tonto. -“Specialmentein chiesa”, rispondeva lui con aria austera e cattedratica. – “Ma cu tutte chell’addore i ‘ncienzo nun ce vene u votastommaco?”insisteva. – “Senti, rispondeva con tono deciso, Farfariello quand’è al lavoro ha uno stomaco di ferro!”. Pensava così di aver chiuso definitivamente la questione. Nel mentre l’omelia andava avanti con il solito tono solenne: “… agli increduli pastorelli. Ma il bambinello sta proprio lì!” continuava frattanto il nostro predicatore. E noi con la mente a precederlo nel suo dire. “Con la sua fulgida luce”, ripetevamo anche noi quasi cantilenando, “illumina il percorso della nostra vita verso la meta celeste”. Non c’era che dire. L’ampollosità e i contenuti del sermone degli anni precedenti parevano proprio non essere cambiati di una virgola. Seguiva quindi il bacio del bambinello la cui bella statuina era posizionata, invero molto bassa, sul grembo di Padre Eusebio che nel frattempo si era seduto sul gradino della balaustra (allora c’era ancora) incrociando le gambe e creando con le cosce una sorta di “cufaniello” che fungeva quasi da mangiatoia.Iniziava così l’acrobatico omaggio al Salvatore, con pronunciato inchino e rischio di goffa “culacchiata” a chi seguiva, al canto di una vecchia canzoncina che tutti conoscono:”Bambinello,bello,bello,vieni vieni e non tardar”. Il canto dell”Adeste fideles”, infine, e il dolce suono delle ciaramelle delle premiate ditte Marcuccio e figlio e successivamente dei fratelli Pezzuti, accompagnavano l’uscita dalla chiesa dei fedeli che potevano osseravre gli ultimi ceppi ancora fumanti del focarazzo acceso qualche ora prima. Era quanto rimasto della sontuosa catasta di legna che allora terminava sempre al suo apice, come un regale albero di Natale che si rispetti, con un puntale del tutto particolare: la prua di un vecchio gozzo che ne costituiva anche la spina dorsale. Le poderose fiamme ricche di faville scoppiettanti poco prima avevano illuminato il volto attonito dei bambini e riscaldato il cuore di tutti. La veglia natalizia chiudeva un periodo molto bello, fatto di sensazioni uniche ed irrepetibili, che cominciava al canto del “Tota pulchra es Maria” dell’Immacolata e proseguiva col “Regem venturum Dominum” della novena di Natale. Canti, ma soprattutto una lingua, il latino,che non si sentono più. Estromesso dalla scuola e dalla chiesa, il latino, ancorché indigesto e incomprensibile,conferiva alle funzioni religiose, oltreché un’accattivante solennità, un fascino del tutto particolare. Sembrava la lingua di Dio, il veicolo naturale per giungere nella profondità dell’anima umana incapace di percepirne la grandezza e l’ineffabilità. L’oscurità di quella lingua sembrava, paradossalmente e per sé stessa, avvicinare i fedeli al mistero Dio più della stessa parola di Dio. Lingua dotta e armoniosa, ne cantava degnamente le sue lodi e ne celebrava adeguatamente la sua gloria. E questo nonostante le storture e le deformazioni a cui la sottoponevano i nostri avi che la trasformavano “ostrogotamente” in un susseguirsi di suoni più o meno assonanti con quelle parole. Possiamo immaginare i sorrisini di nostro Signore che nel raccoglimento dell’adorazione eucaristica ha sentito arrivare ai piani celesti le note di un versetto del “Tantum ergo”, così riveduto: -“Et antiquum documentum” = “Quante è antiche stu cunvento”. E certamente, nonostante tutto, avrà raccolto misericordioso la loro preghiera per i defunti “Requiem aeternam” anche se, farfugliando tra i denti, imploravano qualcosa che somigliava più o meno a “Recchia materna”. Il giorno di Natale, privo allora do quell’atmosfera di sensazionalimo che si crea con le luci fantasmagoriche, palline ultracolorate, ghirlande speciali e decorazioni varie cui siamo abituati oggi, tranne qualche modesto presepe ricco di umido muschio (u’ lipp), aveva il suo fulcro nel pranzo, il momento per eccellenza in cui ritrovarsi. Nelle case tutto era pronto a cominciare “ra scafarea i pasta” (dal greco scafè, piatto di terracotta). Anche i “quarte” erano tutte colme di acqua (l’Acquedotto era di là da venire e nelle case più agiate c’era “a isterna” di acqua piovana sotto la cucina con relativo motorino per tirarla su). Avevano provveduto a riempirle il giorno precedente le mamme con le figlie più grandi presso il pozzo vicino “a sciumara ra marina” dove solitamente si recavano a frotte. Con passo felpato (erano a piedi nudi), “u mantesino annanze” (dal latino “ante sinum”, davanti al seno), uno straccio attorcigliato in testa (a spara) dove portavano “i quarte” in perfetto equlibrio, le braccia piegate sui fianchi in un perfetto e geometrico triangolo, camminavano al passo ancheggiando ritmicamente in una calibrata armonia di movimenti da far invidia alle prime ballerine della Scala o del Bolscioi. In qualche casa tuttavia scorreva qualche lacrima perché c’era almeno un posto a tavola che restava inevitabilmete vuoto: era quello di un marito, di un figlio, di un papà assente, L’emigrazione purtroppo da mezzo secolo almeno faceva le sue vittime. – “Cu ssape oje addù mange papà? chiedeva sconsolato il figlio più grandicello. E La mamma per consolarlo:”Oje papà sta assieme a tio Juan e cumbà Peppe, nu sta sulo!”. Le madri e le giovani mogli, tra una faccenda domestica e l’altra, rileggevano l’ultima lettera giunta via aerea dal Venezuela cercando di esorcizzare quella tristezza che rischiava di inquinare il clima di serenità e di gioia che respiravano gli ignari bambini. Nonostante ciò, il Natale restava il momento in cui, più di ogni altro, si tornava alla tradizione delle tavole imbandite e dai sapori succulenti che affondano le radici nella tradizione contadina. Non mancavano gli struffoli, le pascarelle, il sanguinaccio, e naturalmente loro, le regine, le zeppole di Natale. La manifattura di queste ultime era quasi un rito occulto. Ci si rintanava in casa con portone e infissi ermeticamente chiusi per evitare che qualche “intrusa” esercitasse anche inconsapevolmente i malefici del malocchio. Ma accadeva che puntualmente… Toc!Toc! Era la vicina di casa o la dirimpettaia che bussava. – ” E mò eva venì sta cazza!”, diceva contrariata la mama di casa indaffarata. E rivolto poi al marito: – Va a bberè che vò e spiccialla subbito. Il povero marito in veste di ambasciatore apriva imbarazzato la porta. e… – “Che state facenne?”, chiedeva l’inopportuna. – “Ehm … sta facenne cierte cose muglierema”. – “Ah!E ggiù capito. State facenne i zeppole, vengo aroppe allora”. Tornato in cucina il povero marito doveva subire i “garbati” rimbrotti della moglie; – “Cheste pecchè t’evu ritte che nun g’eva rice niente!”. – ” Ma che puteve fà, rispondeva lui con un timido scatto di stizza, ccà stamme tutto annigliato i fume e che nge riceve … stame ricenne u rusario!?”. Ma poi riusciva tutto bene. Troppo sapienti quelle mani capaci di sconfiggere qualsiasi sortilegio. Quelle zeppole dorate, profumate, e croccanti oggi farebbero fallire tutte le pasticcerie… Il maiale, allevato con cronometrica precisione “cu brole” quotidiano (una brodaglia fatta di avanzi di cucina) e macellato puntualmente in dicembre, forniva i prodotti principali del pranzo. Nei vicoli, all’odore abituale del fumo dei camini, si mescolavano i profumi di vari intingoli. Il maiale era il principe della tavola. Del maiale non si buttava niente, nemmeno … ehm… il caratteristico “pisello” a forma di spirale, unico nel suo genere. Come il moderno stick di burro di cacao che si usa per umettare le labbra, così, le strambaie soprattutto che camminavano a piedi scalzi, lo usavano come emolliente degli aridi calcagni per curare le “serchie”, dolorose ferite provocate dalla pelle secca. Ma a questo punto, anche se non c’entra niente col Natale se non per il pranzo natalizio, (ma poi, suvvia! siamo tutti un po’ più buoni in questo periodo) ci piace spendere qualche parola in difesa di questo animale che ha consentito a quelle generazioni di non morire di fame. Simbolo dell’ingratitudine umana, del porco usiamo la carne come cibo e il nome come insulto. Porco indica odio e dipsrezzo verso una persona ed è anche simbolo dei vizi umani, principalmente della lussuria. Porco e sporco sono sinonimi: “sudicio come un porco” indica il massimo della sporcizia, l’Oscar della lordura. La mitologia greca però ci racconta che sull’Olimpo, la casa degli dei, c’era una dea buongustaia a cui veniva sacrificato e dalla quale sorprendentemente deriva il suo nome, maiale. Quando quindi diamo del maiale a qualcuno, questi non si dovrebbe offendere più di tanto perché gli stiamo prospettando l’Olimpo! Il crepuscolo di quel giorno coglieva il paese in un’atmosfera incantata di assoluta e silente tranquillità. Persino le più “sciarratarie” avevano deposto le loro armi (verbali) astenendosi almeno quel giorno dall’ingaggiare una sonora diatriba fra loro con il reciproco scambio di offese quali “ianara” (nome di una strega) da una parte, e “micirianta” (assassina) dall’altra. Le ombre della sera, sempre più buie, invadevano il paese appena appena scalfite dalla fioca luce di quei vecchi lampioni in ferro battuto e piatto bianco smaltato. Le misere luci da 25 Watt che illuminavano a malapena le case erano l’unico segno tangibile della vita che vi palpitava dentro. Dalla piazza arrivava nei vicoli ancora qualche scampolo dei fumi del focarazzo acceso la sera precedente. Tutt’intorno era un silenzio pacato, placido. Per descrivere la dolce quiete di quella sera niente di più appropriato ed eloquente di una breve e bellissima poesia natalizia di Diego Valeri che si insegnava allora nelle scuole elementari e che i bambini dovevano mandare a memoria. E’ il momento dell’Ave Maria serale preannunciato dal suono dimesso delle campane. AVE. La campana ha suonato e l’Angelo è venuto. Lieve lieve ha sfiorato con le ali di velluto il povero paese; v’ha sparso un tenue lume di perla e di turchese , e un palpito di piume; ha posato gli occhi sulle più oscure soglie… Poi con gli ultimi tocchi cullati come foglie dal vento della sera, se n’è volato via, a portar la preghiera degi umili a Maria. Ed anche allora l’Epifania tutte le feste portava via con l’arrivo della befana che quasi tutti i bambini consideravano strabica, incapace cioè di distinguere un negozio di giocattoli da quello di abbigliamento. Verosimilmente però era una befana realista, che seguiva la difficile congiuntura economica del tempo e, su indirizzo delle mamme, rivolgeva le sue attenzioni su maglioni e pantaloni per i bambini, e su gonne, camicette e calzettoni per le bambine. Più redditizio per i bambini e i ragazzi era il capodanno. Questi ultimi soprattutto, seguendo una vecchia tradizione che portava gli auguri di buon anno con un metodo simile al moderno “porta a porta”, la sera del 31 Dicembre andavano di casa in casa ad augurare prosperità e fortuna. L’allegra brigata in questo suo tour beneaugurante si accompagnava con “raffinati” strumenti musicali dell’epoca quali il tricchebballacche, il putipù e uno strano aggeggio che non saprei proprio definire, ma che posso brevemente descrivere: una tavoletta di legname con manico, con tanti chiodi conficcati, come il letto di un fachiro, ognuno dei quali supportava un tappo di bottiglia schiacciato. Agitando la tavoletta, questi vibravano tutti comtemporaneamente generando un suono originalissimo.La musica che veniva fuori dal concertino era inimitabile. Nessuno strumento elettronico moderno ne potrà mai riprodurre l’armonia per ritmo e calore. Preceduta dal propiziatorio canto”All’avulivaaaaa, alla castagnaaaaa, si nun me fai a ‘mberta crai matinaaaa!” (crai, così come pescraie, derivano dal latino “cras” che significa domani, e “post cras” che significa dopodomani), seguiva poi la formula beneaugurante, assolutamente personalizzata, davanti all’uscio delle porte , che più o meno faceva così:”Pe Giuvanne, pe Giuvanne, pe Giuvanne,(oppure, Peppe,Cuccio, Pauluccio, ecc., fate voi), te mengo nu paniello e nu panaro. Te puozze abbuscà tante sorde auanno pe quanto se ne abbuscano i mie cumpagne. Alla castagna, te lascio a buonanotte e ‘nce ne jamme!”. Il giorno dopo passavano “cu panariello” a riscuotere “a’mberta” competente, piccola mercede di denaro, che alla fine del giro garantiva loro un discreto gruzzoletto. L’offerta variava dalle 50 lire, sufficiente allora per l’acquisto di una “palatella”, alle 100 lire che, invece, consentiva quello “ra palata”. Altre storie, altri tempi. Un microcosmo di emozioni, di profumi, sentimenti che, ahimé, non ci appartiene più. Un mondo meno frivolo e più vero, capace di godere delle cose semplici senza rincorrere paranoicamente futili chimere e stressanti illusioni. Ma se provassimo ad immergere la nostra vita nella dolcezza di quel tempo passato, come quando inzuppiamo la zeppola nel profumato miele, forse ci accogeremmo che quel mondo cui aneliamo, fatto di semplicità, genuinità,solidarietà, insomma di quell’appagante “pace senza morte” tanto cara ad Eduardo, non è nel nostro futuro, ma è alle nostre spalle, nel nostro umile passato. Basta voltarsi indietro…

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