1 Novembre 2025

Parlare con un algoritmo può davvero aiutare la nostra salute mentale?

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Parlare con un algoritmo può davvero aiutare la nostra salute mentale?

La scena è familiare: una giornata stressante, una conversazione che va storta, l’ansia che cresce. Apri lo smartphone e scrivi a un’app che ti risponde con tono empatico: “Capisco come ti senti, vuoi parlarne?”.
Non è un amico, né uno psicologo — è un’intelligenza artificiale.

Negli ultimi anni, il mercato delle app di supporto emotivo basate su AI è esploso. Dalle più note come Woebot, Replika o Wysa, fino a nuovi assistenti integrati in smartwatch e piattaforme di benessere digitale, queste tecnologie promettono ascolto costante e suggerimenti personalizzati per gestire ansia, stress e solitudine.

Come funzionano le app di supporto emotivo

Dietro l’apparente semplicità di una chat “amichevole” c’è un sistema di machine learning addestrato su milioni di conversazioni. L’AI analizza il linguaggio dell’utente – tono, parole, ritmo – e restituisce risposte calibrate sullo stato emotivo percepito. Alcune app si basano su tecniche di terapia cognitivo-comportamentale (CBT), proponendo esercizi di respirazione o di riformulazione del pensiero; altre puntano su un dialogo empatico continuo, quasi simile a un “compagno digitale”.

Per molti utenti, il vantaggio è immediato: accessibilità, anonimato, disponibilità 24/7. In un contesto in cui la domanda di sostegno psicologico cresce e i tempi di attesa per un consulto reale si allungano, l’AI può diventare una prima soglia d’ascolto.

I benefici: quando l’AI aiuta davvero

Studi recenti pubblicati su riviste come JMIR Mental Health mostrano che l’uso costante di app di supporto emotivo può ridurre temporaneamente i livelli di stress percepito e favorire una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni. Non si tratta di sostituti della terapia, ma di strumenti complementari — un po’ come un diario digitale capace di restituire riflessioni e incoraggiamento.

Per le generazioni più giovani, abituate a comunicare attraverso chat e app, queste piattaforme rappresentano un linguaggio naturale per esprimere il proprio stato d’animo. E per chi vive in contesti isolati o stigmatizzanti, possono costituire una forma di primo aiuto accessibile e non giudicante.

I limiti e i rischi etici

Ma c’è un lato oscuro. Quando un algoritmo entra in una dimensione intima come la salute mentale, la domanda non è solo “funziona?”, ma anche “è giusto?”.

Tre nodi principali:

  1. Privacy emotiva – Le conversazioni contengono dati estremamente sensibili. Come vengono usati? Chi li conserva?
  2. Empatia simulata – Le risposte “comprensive” dell’AI sono frutto di pattern linguistici, non di autentica comprensione. Il rischio è un surrogato di empatia che confonde più che aiutare.
  3. Sostituzione del contatto umano – Alcuni utenti, soprattutto fragili, possono sviluppare dipendenza affettiva verso l’app, isolandosi ulteriormente.

Anche le associazioni professionali di psicologi mettono in guardia: il supporto digitale può essere utile, ma deve restare un complemento, non un rimpiazzo del rapporto terapeutico umano.

Il futuro della psicologia ibrida

La direzione più promettente sembra quella di una integrazione controllata: psicologi che usano l’AI per monitorare l’andamento emotivo dei pazienti tra una seduta e l’altra, o piattaforme che uniscono AI e supervisione umana. In questo scenario, la tecnologia non cura, ma amplifica la capacità di ascolto dei professionisti.

L’intelligenza artificiale può offrirci strumenti preziosi per comprendere meglio noi stessi, ma non può sostituire l’esperienza dell’empatia reale. Forse il punto non è scegliere tra “umano o macchina”, ma imparare a convivere con un nuovo equilibrio: una tecnologia che aiuta a stare meglio, senza farsi credere umana.

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