Gli ultimi 11 metri di Agostino: il mistero del campione semplice

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Gli ultimi 11 metri di Agostino: il mistero del campione semplice

Non era un tipo facile. Ma è stato unico. Non era amore. Erano viscere. Agostino Di Bartolomei e la Roma. Più forte di qualunque tradimento perché per quelli come lui c’è sempre un perdono (Tradimento e perdono è la canzone che gli dedicò Venditti). Il 31 ottobre, nella Sala Petrassi dell’Auditorium, alla Festa del cinema di Roma, verrà proiettato 11 metri, il docufilm col quale Francesco Del Grosso ha cucito talento e misteri della sua vita, la semplicità (“il calcio è semplicità”, scriveva Agostino) e la potenza. Calciatore “serio”, uomo sedotto dallo “spleen”, Ago si è suicidato a 39 anni, 17 anni fa. Parlano i suoi amici, i compagni di squadra, i massaggiatori, i medici, i sindaci. La moglie Marisa che incontrò ad una festa noiosa. Il figlio Luca che lo chiama Ago: “Con un gesto stronzo mio padre mi ha lasciato il vuoto ma mi ha insegnato ad amarlo”. Quando esultò dopo aver segnato il gol del 2-1 Ago aveva la maglia rossonera perché qualcuno a Roma gliene aveva strappato di dosso un’altra, costringendolo a traslocare. Si giocava Milan-Roma. I romanisti si sentirono a loro volta traditi. Al ritorno lo fischiarono. Lui rischiò di prendersi a pugni con Graziani. L’Olimpico si divise. Ma non per molto.

Agostino è rimasto Agostino. Con la sua parlata a singhiozzo e quegli occhi scuri che guardavano un punto sempre troppo lontano per capire cosa fosse e sempre troppo vicino per essere messo a fuoco. Un atleta così diverso dai mercenari in mutande, così simile a certi scrittori, o cantautori, o pittori, che sono morti giovani e che per questo è difficile immaginare anziani (Nick Drake, Arthur Rimbaud, Caravaggio). È stato il capitano dello scudetto dell’83. La sua identificazione con la città era totale. Ago era la gente. Con Liedholm condivideva la cultura. Parlavano di tutto, soprattutto di quadri: “Andavano insieme per musei trascinando anche me”, ricorda Righetti nel film. Soffriva anche in quei giorni? Non lo sapremo mai. Certo stupisce ancora la sua riluttanza alla gioia. Nei ristoranti, con la squadra, rimaneva sempre in disparte. Nelle interviste era come se gli fosse appena morto il gatto. Dopo la sua rete più importante, il rigore realizzato contro il Dundee nella semifinale di Coppa dei Campioni, si limitò a disincagliare il pallone dalla rete e portarselo a centrocampo. Come a dire: “Non la facciamo troppo lunga”. “Oooh Agostino! Ago-Ago-Ago-Agostino, gol!”, intonava la Sud.

Si parla tanto di bandiere. Lui lo è stato. Da ala destra si trasformò in centrale di difesa, nell’uomo in più che ispirò Paolo Sorrentino per il suo primo film. Delle sue punizioni a Roma si diceva che le tirasse anche “da casa sua”, anche da 35 metri. Senza di lui la Roma del Barone sarebbe stata meno compatta. Sopportò che per affetto lui e Prohaska venissero ribattezzati “lenti a contatto”. Non gli importava. Si lamentava che la Roma lo avesse costretto a scappare (persino Renato Guttuso si espose per evitarne la partenza) e non lo avesse mai più cercato: “Il suo spessore intellettuale avrebbe fatto bene alla Roma”, ammette l’attuale ds giallorosso Sabatini. Che promette: “La nuova Roma sfrutterà il patrimonio culturale di Agostino. Per dare una svolta al modo di avvicinarsi al calcio, di viverlo. In nome dei giovani e non solo”.

Si ritirò dopo aver riportato in B la Salernitana. Era convinto che il calcio non lo volesse più. Aveva ragione. Era troppo integro. Non accondiscendeva. Che gli affidassero degli incarichi importanti era impossibile almeno quanto un asceta cattolico potesse aspirare ad avere un ruolo nelle prime società calviniste. Bearzot non lo chiamò mai in Nazionale. Lui non disse nulla. Come quando si sparse la voce che avesse appeso al muro Falcao dopo la sconfitta col Liverpool. Ago si portava dietro i profumi e i sentimenti della fanciullezza, della pozzolana, di quando giocava alla Chiesoletta, o sulla spiaggia del Lido di Cincinnato o sul campo dell’Omi a Tormarancia, dove lo pescò Trebiciani. Sua moglie Marisa: “Forse dopo aver smesso doveva essere più coraggioso”. Ago ci stava provando. Da pensionato sognava una scuola calcio. Avrebbe voluto costruire una Trigoria a Castellabate (il paese di Marisa, recente location di Benvenuti al sud), nel Cilento, dove ormai viveva. Qualcuno deve avergli sbattuto la porta in faccia. Tanti anni prima lo avevano rapinato in un ristorante sull’Ardeatina: prese il porto d’armi e da quel giorno dentro il suo borsello (per cui molti lo prendevano in giro) c’è sempre stata una Smith & Wesson calibro 38. A portata di crisi: “Si sentiva minacciato”, racconta un suo amico. La porta in faccia deve aver contribuito a caricare quell’arma. Sappiamo tutto delle formidabili coincidenze. Agostino si è ucciso 10 anni dopo Roma-Liverpool, la mattina del 30 maggio del ’94. Quel giorno l’Ago della bilancia si è spostato verso la parola fine. Invocando l’ultimo perdono.

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