Palinuro, la tragica bellezza del mito da Virgilio a Ungaretti
| di Dario Marrazzo
Il mito di Palinuro, fedele timoniere di Enea ingannato dal dio Sonno, naufragato sulla costa dell’Italia e infine ucciso, ha attraversato i secoli, ispirando con la sua tragica bellezza resa immortale dalla poesia di Virgilio la fantasia di scrittori, artisti e pensatori. Ne ritroviamo il fascino negli scritti di uno dei massimi poeti del Novecento: Giuseppe Ungaretti.
Nel 1932 Ungaretti visitò varie località del Cilento, tra cui proprio Palinuro. La descrizione che ci regala della costa nelle sue prose di viaggio è intensa, suggestiva, a tratti ha un gusto quasi sepolcrale: «Di colpo, il mare in un punto ha un forte fremito: è un branco d’anatre marzaiole che si rimettono in viaggio. Sono arrivate sull’alba, e ora che principia l’imbrunire, volano via. Così fuggì quel Dio Sonno sceso a tradire Palinuro mandandolo in malora col timone spezzato. E le onde, ora repentinamente infuriate, le muove forse il nuoto disperato del fedele nocchiere d’Enea? Piccole grotte ora ci fanno compagnia. I cavalloni penetrando in quegli occhi bui, disturbano le pietre, muovendo un rumore d’antiche ossa. Non ho mai visto acqua di pari trasparenza a quella che scopro avvicinandomi al porto.»
La disperazione di Palinuro, in virtù di una fascinazione che è sia letteraria che geografica, ritorna poi nei versi bellissimi e struggenti di “Il Recitativo di Palinuro”, pubblicati negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Il dolore del naufrago, morto nell’adempimento del proprio dovere di timoniere e strappato con crudeltà al sogno della “terra promessa” cui è rimasto fedele fino alla fine, diventa metafora universale capace di parlare al cuore tormentato dell’uomo contemporaneo. “Tale per sempre mi fuggì la pace;/ per strenua fedeltà decaddi a emblema/ di disperanza e, preda d’ogni furia,/ riscosso via via a insulti freddi d’onde,/ ingigantivo d’impeto mortale/ più folle d’esse, folle sfida al sonno. /(…) Ma nelle vene già impietriva furia/ (…) così divenni furia non mortale.”
Attraverso il fascino del mito e con lo sguardo incantato del poeta-turista, quindi, Ungaretti ha saputo cogliere l’anima più selvaggia e autentica di questo luogo, scolpendola nelle sue parole nello stesso modo in cui il vento e l’acqua, da millenni, scolpiscono i loro versi nelle rocce superbe dell’omonimo Promontorio. E chiunque abbia visto quelle rocce a picco nel cobalto del mare, chiunque ne abbia contemplato commosso le pareti, avrà di sicuro, fosse anche solo per un istante, provato l’identico sacro rispetto, come di fronte a sentinelle eterne, fedeli custodi della leggenda e di una verità senza tempo.
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