Quando Paestum veniva citata da poeti, scrittori, artisti e filosofi

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Quando Paestum veniva citata da poeti, scrittori, artisti e filosofi

Paestum e la riscoperta settecentesca dei templi: rilettura dell’arte classica e valorizzazione di un tesoro.

In epoca rinascimentale alcuni poeti e scrittori già citavano Paestum, pur ignorandone l’esatta ubicazione (veniva, infatti, collocato tra Agropoli e Policastro). Essi si rifacevano a Virgilio, Ovidio e Properzio che ricordavano la bellezza e il profumo delle rose pestane, le quali rifiorivano due volte in un anno, come riportano le parole dell’autore dell’Eneide:

“Ben io qui canterei, qual sia de gli orti / la cultura miglior, come di Pesto / due volte rifioriscano i rosai”

Da sempre i templi di Paestum erano visibili, ma solo verso la metà del Settecento cominciarono ad essere visitati e studiati come fondamentale manifestazione dell’arte greca ai suoi primordi. Nella logica illuministica del Progresso che investiva il XVIII secolo, erano visti un po’ come un punto di partenza per raggiungere l’eleganza, la grandezza e la magnificenza dell’età matura dell’arte classica. Un ruolo di particolare importanza rivestì anche l’apertura dell’attuale SS18, avvenuta grazie a Carlo III di Borbone: si riprese a diffondere la conoscenza di Paestum e risalgono a questo periodo i primi rilievi, le prime stampe e incisioni, i primi disegni e schizzi.

In questo panorama si affermano opere di artisti che hanno studiato i templi pestani: si tratta dei frutti di una ricerca in loco dell’arte greca. Nel 1759 Antonio Joli, pittore italiano esponente del vedutismo, realizza una serie di Vedute dei templi che si presenteranno come un autorevole modello per la produzione di immagini che di lì in avanti farà riferimento a questo monumenti. La sua impostazione verista e razionalistica è animata dall’intento di dimostrare quanto sia prezioso il ritrovamento conseguito.

Nel 1768 è Thomas Major a fornire un’altra opera: senza aver mai visitato di persona l’area pestana egli realizza “The Ruins of Paestum”, che risponde ad un’esigenza documentativa più che espressiva. Il dorico di Paestum viene celebrato come esaltazione nobile di semplicità e quieta grandezza.

Risalgono al 1778 le ventuno vedute dei templi, opera di Giovan Battista Piranesi, risultato di un’efficace indagine critica che, con toni romantici, tese a dimostrare il ruolo dell’estro in architettura. Riconosciamo una sproporzione tra edifici e figure: essa è giustificata poiché si fa portavoce del ruolo determinante che ha l’elemento umano nei confronti delle antiche rovine.

Nel 1782 è la volta di John Robert Cozens. Egli durante il suo secondo viaggio in Italia visita Paestum e realizza i disegni dei templi pestani. Alcuni di essi sono caratterizzati dal cielo minaccioso, elemento che giova alla definizione delle masse plumbee al pari di quelle architettoniche grazie agli effetti del chiaroscuro. L’aspetto preromantico che si poteva cogliere nei disegni di Piranesi viene accentuato da una forte drammaticità espressiva.

Come già anticipato da Cozens, William Turner, pittore e incisore inglese, accentua i blocchi di luce ed ombra rendendo le sue vedute, che risalgono al 1825, pienamente romantiche, con la giusta dose di drammaticità che anima il contrasto.

Più tardi, tra il 1838 e il 1839, le opere di Costantin Hausen, con un accenno romantico, ritornano a far luce sull’elemento umano. È il caso della rappresentazione del tempio di Nettuno, dove la figura del pastorello, che appena si intravede, diventa l’emblema della denuncia per lo stato di incuria in cui sono lasciati i templi e l’intera area archeologica, i cui scavi cominciarono solo tra il 1907 e il 1914 e furono condotti sistematicamente solo dopo il secondo conflitto mondiale.

A dimostrazione della magnificenza di Paestum potremmo citare le opinioni di personaggi illustri. Uno dei maggiori filosofi occidentali di ogni tempo, Friedrich Nietzsche, descrisse Paestum così: “È come se un dio, qui, avesse costruito con enormi blocchi di pietra la sua casa”. E ancora, Winckelmann, storico dell’arte tedesco, quando nel 1758 giunse a Paestum, espresse il suo pensiero con delle parole che fanno ben trapelare uno stupore profondo per ciò che per troppo tempo era rimasto nascosto: “Non è un fatto stupefacente che nessuno prima abbia scritto su questo?”.

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