Maria Nicoletti: una cilentana da Laurino sul tetto del mondo poetico

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Maria Nicoletti: una cilentana da Laurino sul tetto del mondo poetico

La poesia, tenera e indimenticabile forma espressiva che ti riporta indietro nel tempo, ai banchi della scuola, è quanto di meglio possa servire in un mondo globalizzato e velocizzato. Bastano due versi per chiedere perdono, per aprire ferite che non si rimargineranno, per essere trasportato in Universi altri, fatti di tenebre, forse, ma anche di luci abbaglianti e chiarificatrici.

Quanto di meglio: è l’unico strumento d’arte, non c’è dubbio alcuno e non occorre elencare i grandi nomi, che assume le forme del grimaldello, capace di aprire porte rinserrate, soprattutto quelle della mente; è anche, materialmente, un ariete capace di sfondare le stesse porte, quelle delle menti ottuse, nonché di ledere quelle fuori dai corpi umani. Cosa sia, invece, e cosa diventi la Poesia se i versi poetici siano interpellati per aprire prigioni vere, volute dagli uomini, spesso ingiustamente, e difese da porte potenti escogitate in questo presente, allora occorre procedere con prudenza. Allora è richiesta innanzitutto la forza d’animo e la lucidità di almeno un essere umano. Nel caso di cui ci occupiamo è bastata la mente di Stefano Guastella. C’è voluta poi, una magia, qualcosa che moltiplicasse le sue energie in maniera adeguata alle intenzioni. C’è voluto il web. E c’è voluto un portale, 5 avenida, che volesse, attraverso la sua Sezione Cultura e non solo, occuparsi di 5 eroi detenuti da oltre tredici anni. Ovunque si potrà leggere che si tratti di 5 eroi cubani, ma noi non ne faremmo una questione di nazionalità. C’è forse differenza tra un detenuto ingiustamente in Italia, in Turchia, in Cina, in Russia, in Francia, in Germania? E se questi detenuti fossero, invece, come purtroppo sono tuttora, negli U.S.A. di Obama, che tutti avremmo forse votato per agitare onde nuove, si potrebbe mai assumere che ci siano differenze?

C’è voluta, infine, una intenzione rivoluzionaria di autori che prestassero la sensibilità, più che il tempo, a un tema potente davvero: la liberazione di chi patisce in galere assurde, ingiuste, da abbattere, con grave danno per le loro famiglie e la nazione che ne diede loro le origini.

La domanda restata inevasa va ribadita: si potrebbe mai assumere che ci siano differenze per via della nazionalità dei detenuti? L’interrogativo strugge, macera, non può lasciare indifferenti, ma è evidente come sia suggestivo, nel senso che la risposta è implicita, pertanto due sono le possibilità: o è ingenuo o non bisogna più dire altro.

Facciamo un salto e inabissiamoci nella sensazioni suscitate dalla poesia vincitrice del concorso (con altre selezionate tra le migliori italiane e cubane, sarà pubblicata in forma di eBook per tutti e cartacea per le famiglie dei detenuti), copiamola e incolliamola di nuovo:

AVREI VOLUTO VIVERE
Maria Nicoletti, Italia

Ho alzato le braccia alla luce
Ho sentito treni muti
Ho visto inesplicabili punizioni

Vorrei morire, stringendo i pugni
Lo vorrei con ogni forza
Ma vorrei prima aver vissuto

Prima di svelare altro, che troviamo essenziale, affrontiamolo questo testo, analizzandone il contenuto, non la costruzione. Ci si accorge subito come non sia possibile fuggire al suo fascino. Lo leggi, lo rileggi; leggi ancora e non puoi sfuggire a una magia inesplicabile. Non è facile recuperare il senso di certi versi, se piangi. Forse, conoscendo le ragioni che hanno ispirato un poeta, cedi per accondiscendenza. E allora rileggi. No! L’emozione ti sta travolgendo e più cerchi di resistere più ti travolge. C’è qualcosa che sfugge alla mente e allora devi lasciarti prendere, che senso avrebbe non farlo?,  da altro: dal cuore, forse, dalla pelle, di certo, giacché la senti vibrare, da ciò che è ancora mistero e che forse un giorno ti sarà svelato. Ragioni, usi i tuoi strumenti di analisi, ti arrendi. Ci dormi su e forse intuisci qualche approccio che potrà semplificarti la vita, che ti farà conseguire un obiettivo: capire perché piangi.

È solo il protagonista della lirica. Solo! Nel buio, forse. Il suo nome ti è ignoto, ma sai trattarsi di un cubano (conta poco la terra di origine, forse, ma è per qualcuno che dall’arcipelago cubano proviene che tu stai piangendo). Piangi ancora, anche se sai che la lirica è dedicata a un nome, o forse a cinque.

Ho alzato le braccia al cielo
È lui che alza le braccia al cielo, o forse sono cinque, ma di certo non è chi la poesia l’ha sentita salire dal suo inconscio e l’ha riversata su un foglio bianco. Al cielo: e dove se no? Da dove viene la Luce, quella cui allude il primo verso? Ma prima, prima che le braccia fossero alzate, dove le teneva o dove le tenevano? È chiaro: forse faceva o facevano qualcosa di irrilevante; forse era un uomo, o erano cinque uomini, qualsiasi intento o intenti a pensare a una Terra, la meravigliosa Cuba, che voleva o volevano semplicemente evitare lutti alla sua o alla loro dolcissima e tenera gente. C’è forse un reato in ciò?

L’azione prosegue:

Ho sentito treni muti
Atroce! C’è il silenzio, un contenitore orrendo che fa immaginare tempi post atomici. Ma c’è il treno, è quel mezzo di locomozione a essere muto. Allucinata ipotesi di un dramma che ancora non conosci, che nessuno ti ha ancora svelato. Il treno … non è forse anche un contenitore di istanze umane, di bisogni, di viaggi intrapresi per fuggire, per salvarsi, per andare a procacciarsi la vita altrove? E non potrebbe svolgere forse, chi sa di teatro lo sa, la funzione di una valigia sul palcoscenico? La valigia è la casa; lo è anche il treno. Puoi, pertanto, immaginare viaggi silenziosi, con menti umane tese a conservare segreti per non rischiare di compromettere le missioni. Tuttavia, accedendo a una cultura tutta televisiva, il treno era anche il cavallo d’acciaio che turbava le praterie degli indiani. Non si può negare che quei treni, anche se parteggiavi per gli indiani, erano festosi quando sbuffavano vapore; i suoi versi incarnavano il progresso che avanzava. Qui, in questo verso, il treno è muto. Non  serve agli americani e quel silenzio ci martoria. I cinque detenuti avranno forse riposto speranze, desideri, nostalgie in qualcosa di simile? Cosa cercano, cosa gli manca, dove possono scoprire quel tesoro che appartiene al passato e che stanno cercando nel silenzio dei sogni turbati?

Ho visto inesplicabili punizioni
Facile, troppo facile e ciò acuisce il senso del soffrire: sa o sanno che sono innocenti. Resteranno inspiegabili e ingiuste le punizioni.

Vorrei morire, stringendo i pugni
La forma singolare nulla dice su chi e su quanti siano coloro che, giunti al momento in cui si deve passare all’azione, nel tempo presente, osa o osano esprimere un desiderio: vorrebbe o vorrebbero morire, il che forse significa che sa – sanno di essere mortale – mortali, essendo difficile immaginare che un eroe voglia la morte fisica. Egli – loro, semplicemente saprebbe – saprebbero morire, stringendo i pugni. Avrà ciò un senso politico o sarà solo un altro gesto di resistenza. per non abbandonare l’obiettivo prefissato?

Lo vorrei con ogni forza
È una espressione non riconducibile a chi si sia arreso, ma a chi sia consapevole sì. Egli o loro sa o sanno che una forza invincibile domina il corpo. Le pareti della prigione sono imbattibili. Quindi c’è da chiedersi cosa si vorrebbe con ogni forza: morire o stringere i pugni?

L’ultimo verso svela e spiega tutto:
Ma vorrei prima aver vissuto.

Ecco, la verità delle intenzioni è finalmente palese: il protagonista (ognuno dei cinque), non avrebbe problemi a morire, a farlo stringendo i pugni delle braccia alzate alla luce. Tuttavia, tredici anni di prigionia ingiusta e chissà quanti anni ancora da vivere tra quattro mura, o sotto osservazione in terra straniera, non sono vita. Non si può morire se non si è vissuti. Occorrerà rinascere, vivere, prima di alzare le braccia alla luce, stringere i pugni, morire. Occorrerà ritornare in libertà.

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