“Abbandonare l’idea di poter trascorrere la mia vita in patria mi farebbe sentire morta”: la profonda riflessione sulla condizione cilentana di una nostra lettrice

| di
“Abbandonare l’idea di poter trascorrere la mia vita in patria mi farebbe sentire morta”: la profonda riflessione sulla condizione cilentana di una nostra lettrice

Vivo di profonde contraddizioni.

Sono nata e cresciuta nella terra più desolata d’Italia: il Cilento, quella grande Lucania descrittaci da Levi.

I volti vivi di pianto della gente mia, quelle mani indurite dalla zappa e quelle rughe scavate dai pianti, dall’emigrazione e dalla fatica.

Non posso non pensarci, non posso lasciare la loro memoria sepolta nelle campagne. Io vorrei tornare tra loro perché io sono come loro, ma la vita mi ha portata lontana, mi ha messo di fronte al mondo e ho scoperto l’altro al di là del Calore. La mia vita fatta di superstizioni, di antichi credi, è stata stuprata. Nonostante ciò si è imposta e rigenerata, ha scalciato dentro le mie viscere.

Partire vuol dire ricostruirsi una vita, cercare sé stessi lontani dalle proprie certezze e non solo.

Forse io sono morbosamente legata a quel fazzoletto di terra circondato dagli Alburni, ma abbandonare l’idea di poter trascorrere la mia vita in Patria (intesa come dono lasciatoci dagli avi) mi farebbe sentire morta, inerte e senza futuro; anche se avendo scelto di restare sicuramente ho per sempre abbandonato l’idea di avere un futuro.

Se anche io lasciassi il mio paese chi resterebbe a proteggerlo?

Tutti cercano di accaparrarsi qualcosa “sfruttando” le nostre risorse. Per me la terra non va sfruttata bensì amata e valorizzata.

Odio quei salariati comunali che col tempo sono riusciti a distruggermi il centro storico e ad inquinare anche il fiume più pulito d’Europa.

Pensavo che fosse un mondo perfetto il mio, eppure si è smaterializzato pian piano, giorno dopo giorno; quando fu portata via anche l’ultima pietra del lastricato duecentesco pensai che fosse realmente tutto finito.

Eppure non riesco ancora a volerlo abbandonare quel paese. Penso che il male sia nato da quel balcone, da quei balconi dove si ci contende l’ultima parte sana di un mondo che hanno per sempre seppellito. Anche la nostra lingua è stata fagocitata dal dare una buona idea di noi, così si è preferito parlare un italiano popolare piuttosto che l’arcano dialetto.

Noi siamo, dovremmo essere, soprattutto il nostro passato, dunque che civiltà è quella che abbandona la tradizione un giorno per volta? Non trovo la discriminante giusta che discernerebbe una lingua da un dialetto. Quali sono i criteri scientifici che priverebbero un “dialetto” dal prestigio letterario?

Dialetto etimologicamente parlando deriva dal latino “dĭălectŏs”, ovvero colloquiare. Non era anche l’Italiano una lingua priva di funzione poetica, prima che qualcuno decidesse di standardizzarla in una concatenazione di regole?

Buttita, poeta siciliano, scrive:
“…
Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrubbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu
paroli
e si mancianu tra d’iddi.
Mi nn’addugnu ora,
mentri accordu la chitarra du
dialettu
ca perdi na corda lu jornu.
…”

Pessoa scrive, a sua volta:
“La mia patria è la lingua portoghese”.

Riprendendo le sue parole posso asserire che la mia “Patria”, come la patria che in tanti dovrebbero avere, è la lingua Cilentana!

Nel Cilento non si presenta un’omogeneità linguistica tale da poter elaborare teorie generalizzatrici e grammaticalmente trascrivibili senza recar danno a qualche piccola differenza morfologica esistente tra un territorio e un altro.

Nell’area costiera assistiamo al becero fenomeno della napoletanizzazione, tuttavia giustificato dalla posizione geografica e dal continuum linguistico che da sempre nasce dal golfo di Napoli per spingerci fino a quello  di Policastro.

Nei centri densamente più popolati il modello campano predomina spopolando tra i giovani alla ricerca di accettazione.

Nei centri minori, quelli posti nel nulla, si ha un confronto generazionale alquanto triste. Da un lato abbiamo gli anziani, conservatori di un inestimabile tesoro “la lingua degli avi”, dall’altro gli adolescenti di ogni tempo che tendono a mascherare la loro cadenza emulando le altrui parlate apprese andando a scuola o da genitori troppo presi ad insegnar loro la maniera migliore per sembrare più “educati”.

Nessuno ha più tempo per ascoltare la favella e i “cunticieddi” di un sorriso sdentato, nessuno vuol sapere di “rungiddi, spor, seta, sartane, munnulu e quant’altro”.

Semplicemente l’arte contadina viene rifiutata, respinta e rinnegata.

Bisogna omologarsi al resto del mondo a tutti i costi e guai ad imparare a cercare le erbe di campo per sfriggersi la minestra!

In foto: Cono (Rofrano)

©

Consigliati per te

©Riproduzione riservata