Novi Velia, “Quanno se partia re notte p’u monte”: tradizioni, canti e leggende del pellegrinaggio al Sacro Monte

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Novi Velia, “Quanno se partia re notte p’u monte”: tradizioni, canti e leggende del pellegrinaggio al Sacro Monte

“Stiamo arrivando ‘o Madre, tutta la compagnia”… quando l’ultima domenica di maggio c’è l’apertura del santuario della Madonna del Sacro Monte è questo il coro che si leva tra la vegetazione rigogliosa, i maestosi alberi, faggi in testa, che incontriamo salendo sulla vetta del Monte Gelbison, il quale da tempi antichi costituisce il fulcro della devozione per i fedeli non solo per il Cilento, ma anche per le genti di Lucania, Basilicata e Calabria.
Anticamente si partiva  a piedi, di notte, per arrivare al santuario al mattino. Una tappa importante della vita contadina, che toccava sia l’aspetto religioso che “mondano”. Era, infatti, un’occasione di incontro: intere famiglie, vicini di casa, paesani, tutti insieme si preparavano per raggiungere la loro “Mamma” e in questi momenti facevano vita comunitaria. Il cammino da fare insieme, le soste per il pranzo o per il riposo lungo la strada, permettevano a grandi e piccini di socializzare e conoscersi. Quanti innamoramenti sono nati “quanno se partìa re notte p’u monte”: le persone più anziane, che hanno vissuto quest’esperienza, raccontano che era un modo per stare insieme, per relazionarsi “fuori dagli schemi” di una società che non permetteva ai giovani ragazzi di rivolgere attenzioni o scambiare sguardi con le giovani donne. Molti si conoscevano per la prima volta e, perché no, si innamoravano. Questa era anche la speranza delle donne che superati i vent’anni venivano etichettate come “zitelle” e si rivolgevano alla Madonna cantando “Maronna mia, sta grazia nci avìta fà”, chiedendo come “grazia” quella di trovare marito e di sistemarsi.
Il pellegrinaggio dei nostri nonni durava dai 3 ai 5 giorni, oggi basta una giornata e si può raggiungere il posto col pullman. Ogni compagnia partiva con lo stendardo e con le “cente”: si tratta di doni votivi di forma tonda o a forma di barca, costituite da un numero consistente di candele e decorate con fiori e nastri colorati. Venivano portate sulla testa dalle donne, con l’immancabile l’immagine della Madonna davanti, accompagnate dal suono della zampogna e dell’organetto. Ancora oggi molte persone, in segno di penitenza, percorrono scalze la salita che porta al santuario, prima della quale c’è una grossa catasta di pietre con una croce sulla sommità: la cosiddetta “Croce re Monte Scuro” o “Croce re Rofrano”, attorno alla quale i pellegrini devono compiere tre giri, buttando, sopra agli altri massi, le pietre raccolte durante la salita. Legati alla croce in ferro vi sono dei nastri o lembi di fazzoletti: è una gestualità arcaica, molto vicina ai rituali pagani, ma di fondamentale importanza per chi, attraversando questo luogo, vuole lasciare un “suo” segno.
All’ingresso nel santuario la stanchezza lascia il posto alla contentezza e all’emozione di poter finalmente affidare alla Vergine le proprie speranze. Secondo un’antica tradizione deve essere il più giovane della compagnia ad entrare per primo, con una Bibbia aperta tra le mani, seguito dai suonatori, dal portatore dello stendardo, dalle donne con le cènte e dagli altri componenti del gruppo. Dalla soglia dell’ingresso all’altare sono numerosi i fedeli che procedono in ginocchio fino all’altare, in segno di penitenza, cantando:
“Maronna tanto cara,
ca stai inta sta muntagna,
accuogli sta compagnia
e grazie Maronna mia!”

 Dopo la celebrazione le compagnie si trattengono sul sagrato con balli e canti che risuonano nell’aria che sa di “magia”, sia per l’importante legame che chiunque vi giunge ha con questo posto, sia per l’atmosfera che ci circonda lassù. Lassù dove la nebbia incornicia lo splendido panorama che permette di vedere l’intero Cilento, dall’imponente Cervati al mare cristallino delle nostre coste. Ad attirare l’attenzione, poco oltre la balaustra del piazzale, c’è “a ciampa re cavaddo”: un pinnacolo di roccia calcarea verso il quale si lanciano delle monetine, nel tentativo di farle cadere proprio sulla superficie. Se, con tre tentativi, ciò riesce, secondo la tradizione, la persona che ha lanciato la monetina si sposerà entro l’anno, se si tratta di una giovane donna, e ritornerà sul Sacro Monte, se, invece, si tratta di una persona anziana. Questa credenza è legata a una leggenda: si narra che in età longobarda due cavalieri giunsero sulla cima del monte, uno di essi entrò in chiesa  a salutare la Madonna e l’altro rimase fuori a bleffarlo, ritenendolo un “debole” per il gesto compiuto. Il cavallo dell’ironico cavaliere si imbizzarrì e stava andando oltre l’orlo del precipizio, allora il cavaliere implorò l’aiuto della Vergine che lo aiutò, facendo fermare la cavalcatura proprio su quello spuntone di roccia.
Quando arriva l’ora di andare via si rientra in chiesa per l’ultimo saluto alla protettrice: si esce dalla chiesa senza voltare le spalle alla Madonna, cantando strofe come quelle che riporto qui di seguito.
 
1 -“Mò me ni parto e parto sicuro
e ‘mbietto la porto la tua figura,
e sembe ‘mbietto la voglio portare,
sembe a Maria io voglio chiamà”.

2 -“Maria mò mi parto, non so se più ritorno,
ma se Maria non torno, non ti scordar di me.”

3 -“Siamo venuti e mò ce ne andiamo
come facciamo senza di te?
Maria risponne io vi accompagno
sotto al mio manto vi porterò.”

4 -“Mò ce ne andiamo alle nostre case,
chi ci vuol trase senza di te?
Maria rispose io vi accompagno
sotto al mio manto vi porterò,
sotto al mio manto vi porterò
come un giglio di carità.”

5-“E co tutta sta compagnia,
statti ‘bbona Maronna mia!”
 
 
Un’esperienza pura, con tracce di antichità e tradizione, assolutamente da vivere nel periodo da maggio a ottobre, quando i rituali delle varie compagnie possono arricchire la nostra anima e l’aria in vetta è frizzantina.

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