“Le strade dell’Apartheid” nella mostra di Luca Greco al Meeting del mare

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“Le strade dell’Apartheid” nella mostra di Luca Greco al Meeting del mare

di Giangaetano Petrillo

Luca Greco, classe 1979, è un dottore di ricerca in filosofia teoretica, cosa che gli consente d’incontrare sui banchi del liceo Walter Benjamin, e la sua flânerie. Da quel momento, perdersi coscientemente fra le vie, le piazze, i labirintici vecchi carruggi delle città e dei posti che visita, sarà un tratto distintivo del suo viaggiare. Un sindacalista della CGIL, un educatore di scuola, un no global ai tempi del 2001 «ogni anno ritorno lì, in quei luoghi che per me, come per la mia generazione, segnarono uno spartiacque. Esiste un prima e dopo Diaz, come per molti esiste un prima e un dopo 11 Settembre». Luca ha sempre provato a guardare le situazioni con le quali si è confrontato dalla prospettiva più scomoda, quella dei vinti; il conformismo tipico dei vincitori non gli appartiene. E sono queste le prospettive che vediamo racchiuse nei suoi scatti. «Non sono un fotografo, sono ben altro. Pratico la fotografia per hobby, e riesco a catturare le storie delle persone che incontro e attraverso le mie mostre tento di dar loro una voce e di assicurargli memoria».

Le strade dell’apartheid, che vedremo in mostra nella tre giorni del Meeting del Mare a Marina di Camerota, è un racconto fotografico che scova, attraverso le immagini, un tratto comune, un filo rosso, nelle storie di tre Paesi e di tre popoli solo in apparenza lontani. Nucleo dell’incastro di fili, di storie e di sguardi che qui si prova a raccontare è la continua e progressiva privazione della libertà che ha colpito e tuttora colpisce il popolo palestinese, quello saharawi e quello di religione cattolica dell’Irlanda del Nord. «Quando decido di partire, per lavoro o per opportunità, non parto con l’intenzione di raccontare ciò che scopro. Alle volte, come successo con questi tre popoli, queste tre culture che porto in mostra, è la gente di questi luoghi a chiedermi di raccontare ciò che ho visto». E quale mezzo o strumento migliore della fotografia per poter raccontare ciò che uno vede, ciò che uno percepisce con lo sguardo. Il popolo Saharawi non ha una casa, le sue città sono rimaste al di là del muro marocchino.

«Grazie ad una Ong della CGIL, di cui sono un sindacalista, parto per la supervisione di alcuni progetti che finanziamo in quei luoghi. Ho conosciuto volti e storie di popoli da anni costretti a fuggire perché non hanno una terra, un luogo cui chiamare casa, dove vivere serenamente.» Dalla propria terra sono stati cacciati, costretti ad una traversata nel deserto che li ha portati in Algeria.

Un esodo biblico. Al termine del quale sono in attesa del ritorno. Da più di quarant’anni. Oggi esistono due Smara, due Dakhla, due El Ayoun; una nel Sahara Occidentale ed un’altra in Algeria, nel deserto dell’Hammada, quasi a voler mantener vivo quel filo rosso della memoria che li riporta costantemente a casa. Hebron è un incubo. Più di 700 coloni protetti da oltre 4000 soldati hanno occupato una città. Il muro israeliano, serpente di acciaio e cemento che si snoda in territorio palestinese, divide terra,  paesi, famiglie, persone. «Parlare e soprattutto ascoltare le loro voci, provenienti da mondi diversi, cultura e anche ragioni politiche differenti, serva a comprendere soprattutto che se vi fosse la volontà riusciremmo a trovare una soluzione».

La densità abitativa dei campi profughi si alza incessantemente anno dopo anno a causa del continuo ammassarsi di case, cose e persone in uno spazio fisico sempre uguale a se stesso. In Palestina, è questa la quotidianità dell’occupazione. Il conflitto in Irlanda del Nord sembra quasi non essere mai esistito. Dagli accordi di pace del 1998, un velo di nebbia è sceso sull’intera isola. Ed è stato Ed invece a Belfast, nel cuore dell’Europa, i taxi neri continuano ad aggirarsi per le strade: esistono infatti, ancora oggi muri che dividono i cattolici dai protestanti, esistono ancora oggi quartieri nei quali un cattolico non può entrare, esistono Bloody Sunday per le quali ancora oggi nessuno è Stato.

«Mi meraviglia il fatto che in una civilissima Europa esistano condizioni simili dove manchi libertà, rispetto, uguaglianza e, cosa più fondamentale, tranquillità». La segregazione fisica e mentale nella quale sono costretti a vivere la loro quotidianità il popolo palestinese, quello saharawi e i cattolici dell’Irlanda del Nord, lega ed accomuna queste storie. Le strade di Belfast, come quelle di Hebron, Tulkarem, Deishe, New Askar, Daklha e Smara trasudano claustrofobia. La si legge nei muri, ma anche negli occhi. Sono piene di questa assenza. Ed ecco che un filo rosso, potente, emerge. «Luca ci mostra le tracce, le impronte di questi tre popoli privati di diritti e libertà, divisi da muri e filo spinato, dimenticati nell’indifferenza della diplomazia internazionale»,  così Giulio Di Meo scrive nella prefazione al libro e continua«Come il cammino delle storie, così la speranza di Luca è quella di rivedere presto questi popoli in cammino verso la libertà. Un atto d’amore, immagini che con l’aiuto delle parole dovrebbero spingerci a prendere posizione, a contribuire nella costruzione di una società meno indifferente e più giusta».

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