Ci sono luoghi dove il tempo si posa con la delicatezza di una mano antica. Morigerati è uno di questi. Nel centro storico vive un museo che racconta la vita semplice e fiera di chi ha costruito un mondo con la fatica e con il cuore. Nato dalla passione di due sorelle, Clorinda e Modestina Florenzano, che negli anni Sessanta iniziarono a raccogliere gli oggetti di un tempo che stava svanendo, il museo etnografico della civiltà contadina è oggi uno scrigno di oltre novecento reperti: aratri, telai, stoviglie di terracotta, macchine per filare la lana, e fotografie che sembrano parlare. È una collezione che non appartiene solo a Morigerati, ma a un intero modo di vivere, a un’Italia che, tra sacrifici e speranza, ha costruito il proprio futuro partendo da mani callose e da sogni semplici.
Camminando tra le stanze dell’ex convento che lo ospita, ogni oggetto racconta una storia. Sembra di sentire il suono del martello del fabbro, il canto delle donne che filavano la lana nelle sere d’inverno, l’odore della cera. E tornano le voci delle contadine del Bussento, le loro risate, i loro canti: frammenti di un mondo che non c’è più, ma che continua a insegnare cosa vuol dire comunità.
L’esposizione è articolata in dodici sezioni su due piani ed è dedicata al ciclo della produzione di ferro, cera, ceramiche, lino e ciò che rappresenta la maggiore fonte di lavoro di pastori e contadini. Utensili di fogge diverse, falci e un antico telaio, memoria di abili mani che mandano la spola e vedono crescere la stoffa sotto le dita. Molti i lavorati all’uncinetto, biancheria ricamata e teli tessuti a telaio tradizionale, abiti per l’uso quotidiano e cerimoniale. Preziosi alcuni scialli in seta ed un abito matrimoniale nei toni del verde e blu-viola.
A Morigerati si coltivava la pianta di lino che era poi lavorata fino a ridurla in fibra tessile. Altri spazi sono riservati alla falegnameria mentre particolarmente interessanti sono gli attrezzi dedicati alla produzione di candele ex voto in cera relative alla Cereria, sorta probabilmente a metà 800 ad opera di un uomo del posto che aveva appreso il mestiere di ceraiuolo soggiornando per tre o quattro anni a Messina e attiva fino agli anni ’40. I manufatti prodotti sono oggetti devozionali: la cera d’api veniva acquistata in occasione della fiera di San Leonzio a Torre Orsaia.
Completa la collezione di paramenti sacri e documenti ecclesiastici, una preziosa raccolta di indumenti liturgici non più in uso dopo il Concilio vaticano II. Numerosi paramenti di colori diversi a seconda del periodo e delle specifiche cerimonie. E’ anche esposto un tappeto funebre, un tempo utilizzato nei funerali per accogliere, in chiesa, la bara del defunto.
Un’altra parte del museo propone un’esposizione fotografica realizzata da Luciano Blasco, che ha diretto il museo dalla nascita (oggi a dirigerlo è Gianluca Santangelo) e dedicata agli abitanti del borgo nelle loro case, nei luoghi di lavoro. Un tuffo nel passato semplice e laborioso del Cilento che rivive anche attraverso i racconti e le storie di Elfriede Caiafa, preziosa custode.
Il museo, intitolato alle sorelle Clorinda e Modestina Florenzano, è stato riconosciuto museo di interesse regionale. Fuori, a pochi passi, scorre l’acqua limpida del fiume Bussento, protetta dall’Oasi WWF: la stessa acqua che un tempo dissetava i campi e muoveva i mulini.



